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Anna Ternheim: dal nord, fragilità e bellezza

Gelmini italo red italo

C’è stato un periodo nella mia vita in cui acquistavo compulsivamente lavori di cantautrici folk, del presente e del passato, prediligendo nomi meno noti e anti-mainstream. Non sempre è stata una buona idea (per eleganza eviterò qui le cantonate prese a suon di euro!), ma quell’infatuazione mi ha portato a scoprire artiste straordinarie come Vashti Bunyan, Linda Perhacs, Turid, Laura Gibson, Claudine Longet e Laura Veirs. Tra queste, una delle scoperte più preziose è stata la diafana Anna Ternheim, svedese, classe 1978, nata a Stoccolma. La sua carriera musicale è iniziata già a 10 anni con le prime composizioni alla chitarra. Durante un soggiorno ad Atlanta ha fondato la band Sova, e nel 2004 ha pubblicato il suo esordio discografico svedese, Somebody Outside.

Dotata di un felice intuito melodico e di una voce limpida, capace di fondere sensibilità nordica, introspezione folk ed eleganza pop, Anna caratterizza la sua musica con una scrittura brillante: costruisce mondi sospesi tra malinconia, nostalgia e trasparenza emotiva, capaci di toccare l’ascoltatore al di là di ogni artificio.

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Intimità e tensione

Leaving on a Mayday (2008, Universal Music), terzo capitolo della sua discografia, segna un punto alto nella carriera di Ternheim. Il disco, cantato in inglese e prodotto da Björn Yttling dei Peter Bjorn and John, è stato eletto “miglior album dell’anno” nell’edizione 2009 dei Grammy svedesi. Musicalmente è costruito su una combinazione di arrangiamenti minimalisti, ricchi di dettagli: chitarre acustiche eleganti, pianoforti sospesi, archi soffusi e un uso misurato della ritmica elettronica. La voce di Anna, dolce, leggermente nasale e sempre evocativa, si muove con naturalezza tra fragilità e decisione, creando un senso di intimità e tensione al tempo stesso.


Il titolo del disco, Leaving on a Mayday, suggerisce questa doppia dinamica: il termine “Mayday” evoca sia un SOS sia il mese di maggio, simbolo di rinascita e contemporanea vulnerabilità, perfetto per la poetica malinconica ed il lirismo sofferto di Ternheim. Un contesto musicale perfettamente delineato dalla meravigliosa copertina del disco, un’immagine onirica di un cielo stellato visto dall’alto di tetti e antenne, in perfetto stile Tim Burton, in cui è presente la cantante accompagnata da una valigia alla sua destra e da una scimmia alla sua sinistra.
Le canzoni sono spesso attraversate da temi di rottura, perdita, ricongiungimento e riflessione interiore. C’è una matrice quasi religiosa, un afflato verso il divino, percepibile in alcune immagini liriche, senza però compromettere la sincerità pop delle melodie.

Da cosa partire


What Have I Done – Apertura drammatica


Un’inizio drammatico, sostenuto da un basso insistito, cassa in quattro e archi che colorano e rincorrono la voce di Anna: è questa la cifra stilistica con cui si presenta all’ascolto Leaving on a Mayday. Un’apertura intensa e corposa, che lascia ampio spazio ad una voce limpida e chiara e all’uso sapiente delle armonizzazioni vocali, uno dei tratti distintivi del disco, opera delle sorelle Bondesson (Stella, Greta e Sunniva, del gruppo folk-rock svedese Baskery). Il testo, funzionale ma non centrale, riflette sull’innamoramento, ben riassunto nel ritornello: “What have I done to fall so hard for you?”. Qualcuno forse lo ricorderà come colonna sonora nell’ottava stagione di Grey’s Anatomy.

Damaged Ones – Le ferite interiori


Uno dei pezzi forti del disco, Damaged Ones osserva ferite interiori senza indulgere nel melodramma. Si apre con un fill percussivo tribale e sostenuto, su cui si staglia la melodia:
Maybe we are the damaged ones / Endless need like a burning sun / Burns like you, my damaged one.”
Di chi si stia parlando e in che senso è arduo da dire, ma l’effetto emotivo è potentissimo. I “damaged” siamo probabilmente tutti noi, esposti alla vita, feriti dai sentimenti. La tensione tra vulnerabilità e accettazione permea l’intera traccia, supportata da un tappeto sonoro coinvolgente e preciso, mostrando chiaramente la capacità di Anna Ternheim di usare soluzioni musicali non convenzionali per costruire le proprie canzoni.

Let It Rain – Oscure riflessioni sotto la pioggia


Altro pezzo notevole e dall’arrangiamento originale, basato su un pianoforte percussivo e clangori sonori di contorno, Let It Rain è il pezzo da cui è stato tratto il titolo dell’album: “Leaving on a Mayday, fine summer pain” recita il primo verso. Qui Ternheim mostra la sua piena capacità di disegnare quadri narrativi evocativi accostando i sentimenti agli elementi naturali più elementari. Il testo è tra i più enigmatici e stratificati di Leaving on a Mayday e forse uno dei più evocativi del suo intero repertorio. A colpire, innanzitutto, è la struttura a quadri lirici, quasi delle scene che scorrono davanti agli occhi come in un film. La pioggia — ripetuta ossessivamente nel ritornello — diventa una sorta di elemento purificatore, simbolo di dolore che bagna ma anche di vita che germoglia (“That’s how all things grow”). La pioggia è quindi sia condanna sia rinascita, una benedizione ambivalente che accompagna ricordi e perdite.
Nel suo evolversi, il testo intreccia più voci e generazioni: c’è una biografia implicita (“Where the father died in ’59, and mother did in ’63”), il peso di una famiglia spezzata, ma anche il desiderio di non soccombere (“his feet are moving again”). Questo doppio movimento — memoria dolorosa e volontà di andare avanti — è il cuore tematico della canzone: ogni esistenza porta con sé i segni di ferite familiari, genealogiche e storiche, e l’unico modo per trasformarle è lasciarle cadere come pioggia, accettandone il peso ma anche la funzione vitale.
Let It Rain diventa così un piccolo racconto di memoria e meditazione: una riflessione sulla perdita e sulla continuità, dove la voce limpida e malinconica di Anna fa vibrare ogni parola come l’eco di un passato che continua a vivere dentro di noi.

Summer Rain – Meditazioni e paure sospese


Summer Rain rientra, ed a ragione, tra i pezzi di maggior successo di Leaving on a Mayday: una ballata pacata, sorretta esclusivamente da una chitarra acustica e dalle toccanti armonizzazioni vocali delle sorelle Bondesson e di Anna stessa, in cui la musica rilassata contrasta con le tinte fosche, religiose e meditabonde di uno dei testi più riusciti del disco. Merito anche del phrasing maturo e personale, il pezzo risulta elegante e poetico nell’esplorazione della fallibilità umana. C’è un forte anelito al divino in questo testo, che purtroppo non lenisce le ferite terrene:


One day, I don’t know how, my whole life evolved / Around you my lord, believing was not enough / You said I was a hole of desperate need, and no love in the world, not ever yours, could satisfy me

canta Anna rivolgendosi a Dio. All’essere umano (un buco di bisogno disperato, che nemmeno l’amore divino può colmare) non resta che cadere come un’onda contro lo scoglio, e vedere arrivare uno dopo l’altro i disastri della vita e le sue cicatrici imprevedibili (“Leave with a rash, or get crushed”). Una predisposizione necessariamente remissiva di fronte alle forze sovrumane che governano la nostra vita, fatta di fragilità esistenziale:


You never know, until after the shock / When you wake up, what’s broken, what’s not


Qui siamo di fronte a uno dei versi più incisivi e veri del panorama pop mondiale contemporaneo. La poetica del brano risiede esattamente in questa osservazione lucida e dolorosa dei propri limiti e ferite: la consapevolezza che solo dopo uno “shock” (e non prima!) si scopre realmente cosa si è rotto e cosa no.

Black Sunday Afternoon – Fragilità crepuscolare


Il disco si chiude con quest’ultimo gioiello: un fingerpicking bluesy mascherato da canzone pop, con uno dei testi più crepuscolari mai scritti. La fragilità umana di fronte al fato emerge con chiarezza. Il nero pomeriggio domenicale del titolo diventa presagio di paura, metafora di catastrofi:


“il sole è pallido come la luna, quando guardi il cielo / santo cielo, perché tutto svanisce nel blu?”


Un interrogativo silenzioso rivolto al divino o all’universo, che si sposa con la delicatezza malinconica della voce di Anna.
La narrazione procede in soggettiva, dove esperienze quotidiane — una passeggiata in bici, un incidente (“Bad luck come at just a car”), il risveglio su un materasso ad acqua — si trasformano in simboli di vulnerabilità e impotenza. Nell’ultima strofa, la descrizione del piccolo foro nella testa e della difficoltà a percepire la propria voce conferiscono una fisicità straniante e quasi surreale al dolore, suggerendo una frattura tra corpo e coscienza:


You wake up in a water-bed / And on the back of your head a lump and just a tiny hole / Almost no light at all in here / When you call / you can’t hear your own voice at all.”


Musicalmente, il brano si muove su un registro sicuro, dove la voce di Anna guida un paesaggio sonoro rarefatto. Gli arrangiamenti, eleganti e mai invadenti, esaltano il senso di introspezione e sospensione emotiva. La combinazione di osservazione minuziosa, immagini quasi cinematografiche e sensibilità vocale rende Black Sunday Afternoon uno dei momenti più poetici e fragili dell’album.

La cifra unica di Anna Ternheim


Anna Ternheim si inserisce in quella linea di cantautorato folk alternativo che, dagli anni ’90 in poi, ha ridato voce alla fragilità e all’intensità emotiva femminile senza filtri commerciali. Se in America emergevano figure come Cat Power (con la sua tensione nervosa e minimale), Kristin Hersh (con la sua scrittura più ruvida e obliqua), o Aimee Mann (più vicina a un pop cantautorale elegante e malinconico), in Europa Anna Ternheim ha rappresentato una via singolare: nordica, essenziale, sospesa tra folk tradizionale e pop introspettivo. La sua musica condivide con queste artiste la volontà di scavare nel dolore e nella vulnerabilità, ma si distingue per la capacità di rendere tutto cristallino, come se i suoi brani fossero fotografie d’inverno, fredde e trasparenti, con un’eleganza sonora che richiama i primi dischi di Emilie Simon, tra raffinata orchestrazione e intimità elettronica misurata.

In Leaving on a Mayday emerge con forza anche il tema della debolezza umana, fisica, non solo spirituale: la fragilità di fronte al fato, alle circostanze della vita e alle forze che governano l’universo, un senso di impotenza che non riduce però la dignità né la bellezza del sentire. Ogni brano diventa così un piccolo studio sulla vulnerabilità, un modo per riconoscere la nostra condizione di esseri fragili e, al tempo stesso, straordinariamente vivi.

In questo senso, Anna Ternheim può essere considerata quasi un’antesignana di Lana Del Rey: non tanto per i riferimenti stilistici (Lana affonda più nel glamour e nella cultura pop americana), quanto per l’abilità di costruire un mondo interiore coerente, ombroso e seducente, dove ogni canzone diventa parte di una narrazione emotiva più ampia. Ternheim arriva prima, con meno clamore e più sobrietà, ma con la stessa abilità nel costruire canzoni di razza, aprendo la strada a quell’idea di “cantautrice totale”, capace di creare non solo canzoni, ma atmosfere e universi reali, carnali e tangibili, vivi nella loro intensità.

Tracklist

1.What Have I Done

2. Damaged Ones

3. Terrified

4. Let It Rain

5. My Heart Still Beats for You

6. No, I Don’t Remember

7. Summer Rain

8. Losing You

9. Off the Road

10. Black Sunday Afternoon

Discografia essenziale


Somebody Outside (2004, Universal Music) – Esordio elegante e intimo, già segnalava la scrittura malinconica di Ternheim.

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Separation Road (2006, Universal Music) – Maggior densità narrativa, con arrangiamenti più ricchi, anticipa le sfumature pop di Leaving on a Mayday.


Leaving on a Mayday (2008, Universal Music) – Il punto più alto della sua poetica malinconica, produzione di Björn Yttling.


The Night Visitor (2011, Universal Music) – Atmosfere crepuscolari, arrangiamenti acustici e cristallini, collaborazioni vocali che arricchiscono la voce di Anna.


For the Young (2015, Universal Music) – Album più sperimentale, con tonalità elettroniche delicate che espandono la sua sensibilità folk-pop.


All the Way to Rio (2019, BMG) – Ultimo lavoro in studio, più ritmato e luminoso, pur conservando eleganza e malinconia.

by Fabrizio Gelmini

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