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Margo Guryan e i Demos: i gioielli nascosti del pop americano

Fabrizio Gelmini - Italo RED italo

C’è una musica che arriva da lontano, senza far rumore. Non ha fretta di piacere, non bussa alle porte del mercato, ma si insinua piano, come un pensiero gentile. I 27 Demos di Margo Guryan è proprio questo: una raccolta di canzoni nate in sordina, rimaste nell’ombra per decenni, eppure luminose come le mattine d’inizio primavera.

Registrate tra la fine degli anni Sessanta e i primi Settanta, queste tracce non erano destinate alla pubblicazione: erano provini, idee appuntate con leggerezza, spesso pensate per altri cantanti. Ma ascoltandole oggi si ha l’impressione opposta — che nessun altro, oltre l’autrice, avrebbe potuto interpretarle. Perché Margo Guryan, compositrice raffinata e riluttante protagonista della scena pop californiana, aveva un dono raro: scrivere canzoni perfette e cantarle come se fossero un segreto condiviso con chi ascolta.

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Margo Guryan non voleva diventare famosa. E forse è proprio per questo che la sua musica risuona oggi come un miracolo sommesso, un canto leggero e insieme profondo, venuto a galla dopo decenni di silenzio.

Nata a New York nel 1937 e cresciuta nel Queens, Margo era una pianista classica (suonava il piano dall’età di sei anni) prestata al pop: laureata alla Boston University, studiò pianoforte alla Lennox School of Jazz, collaborando con Ornette Coleman e Don Cherry e avendo come professori Bill Evans, Max Roach e Milt Jackson; una songwriter che parlava la lingua del jazz e pensava in armonie di Bach, ma che finì, quasi per caso, a scrivere canzoni per altri. Negli anni ’60, frequentava gli studi della Columbia University e quelli della scena di Los Angeles, respirando l’aria vibrante del tempo: era amica di Phil Spector, collaborava con cantanti come Spanky & Our Gang, Claudine Longet, Carmen McRae, Astrud Gilberto. Eppure il suo nome rimase in ombra: troppo sofisticata per il mercato, troppo riluttante verso le logiche promozionali. Più che una popstar mancata, Margo è stata una compositrice di razza, una scrittrice silenziosa di hit potenziali.

Tra Bill Evans e Brian Wilson

Ascoltare 25 Demos è come trovare un diario segreto sotto il materasso di una camera da letto anni ’60. Dentro ci trovi un mondo: i sogni da spiaggia di Brian Wilson, le armonie leggere e fluttuanti di The Free Design, la scrittura frizzante di Carole King e le atmosfere vellutate di Laura Nyro. Ma anche un’ironia alla Françoise Hardy, una tenerezza alla Vashti Bunyan, un minimalismo che anticipa certa indie pop al femminile degli anni Duemila.

Le canzoni raccolte in questo disco – pubblicato nel 2001 da Franklin Castle, e poi ripreso in edizioni alternative come Thoughts (RPM, UK) o 27 Demos (Burger Records) – non erano nate per essere pubblicate. Molte furono scritte per altri; alcune, come Sunday Morning e Think of Rain, verranno poi rielaborate in versioni appena più compiute nel suo primo e unico album ufficiale, un manifesto del sunshine pop, Take a Picture (1968). La maggior parte, invece, furono registrate su cassetta nel salotto di casa sua a Larchmont Village, Los Angeles e poi dimenticate. Fu Kevin Dotson (in arte Linus of Hollywood) a scoprirle nel 1999, quando Margo gli mostrò una scatola piena di demo e spartiti mai pubblicati. La qualità del materiale era tale che Dotson la convinse a metterlo su disco. Il risultato è una raccolta di piccoli gioielli, registrati senza fronzoli, ma con un’intelligenza musicale impeccabile che emerge, nonostante gli arrangiamenti casalinghi, in ogni linea melodica, in ogni scelta armonica.

Non solo songwriter, ma archivista dell’emozione

Guryan ha scritto per altri, sì. Ma i Demos dimostrano che era innanzitutto un’artista completa, che sapeva incantare anche con la propria voce — sottile, impalpabile, breathy, come dicono gli anglosassoni, un inno delicato alla bellezza. Più che cantare, Guryan sussurra, annota, suggerisce. Non impone mai. Non cerca l’effetto. Ma ogni brano resta in testa come un refrain d’infanzia.

Tra le tante perle qui raccolte, spiccano Sunday Morning e Sun, che sembrano uscite da un sogno registrato in pellicola Super 8. La prima è un risveglio delicato, in cui la voce di Guryan scivola su accordi di chitarra tiepidi come la luce del mattino: “Sunday morning / sun shining from your eyes” – un’immagine semplice, ma così perfetta da restare impressa. Sun, invece, è un inno lieve alla gioia quotidiana, dove il sole diventa quasi un personaggio secondario, timido ma presente, nella vita di chi canta.

Thoughts, riflessiva e sospesa, è una canzone da camera più che da palco. In meno di due minuti racconta un’intera parabola emotiva: dall’innamoramento all’addio, con versi essenziali come “Climb the stair / Open the door / You’re not there anymore”, che condensano in pochi fotogrammi una perdita irreparabile. La voce di Margo, lieve e trattenuta, rende ancora più straziante il contrasto tra il tumulto interno e la superficie quieta del brano.

La sublime California Shake, invece, è molto più di un gioco di parole: è un terremoto interiore narrato con voce pacata, quasi rassegnata, su una melodia garbata che nasconde la tensione. “Melon-rising California sun / Drifting in a day not yet begun”, canta Guryan, dipingendo una scena idilliaca e luminosa, subito incrinata da un presagio sismico: “Overground, it starts to feel strange / Underground, it starts to rearrange”. È un brano che parla di disorientamento, di perdita di certezze, ma lo fa con una grazia che disarma. Mentre tutto si muove, lei resta immobile — e proprio questo rende il brano tanto inquieto quanto affascinante.

Timothy Gone è una piccola elegia sghemba sorretta da un fascinoso Fender Rhodes, un addio trattenuto ma carico di domande inevase. “I woke up in the mornin’ / And there was Timothy gone / He didn’t give me warnin’”: il tono è quasi infantile, ma dietro la ripetizione si intravede un senso di smarrimento profondo. Il ritornello, che si avvita su se stesso, mescola rassegnazione, ironia e disorientamento. L’arrangiamento è spoglio, la voce appena accennata, come se il dolore stesse ancora decidendo se farsi sentire o no.

Perché non ha sfondato?

La risposta è semplice e insieme complessa: Margo Guryan non ha mai voluto “giocare il gioco”. Quando Take a Picture uscì nel 1968, le venne chiesto di promuoverlo con tour e interviste. Lei rifiutò. Non le interessava la celebrità, la ribalta. Preferiva restare dietro le quinte, continuare a scrivere, insegnare musica, stare con chi amava. Come raccontava in rare interviste: “Non volevo fare la cantante. Volevo solo scrivere canzoni”, dichiarò. E nel 2010, al conduttore britannico Iain Lee, aggiunse: “Non mi piaceva sentirmi dire cosa fare”.

Una rivalutazione tardiva, ma meritata

Negli anni Duemila, con l’esplosione dell’indie pop e la riscoperta del soft psych, Margo Guryan è diventata una figura di culto. Artisti come Saint Etienne, Japanese Breakfast, e perfino Mac DeMarco hanno citato il suo stile come riferimento. Altri, come Isobel Campbell (ex Belle and Sebastian) nella sua produzione solista, fanno evidentemente riferimento al suo stile colto e delicato. I blog musicali l’hanno riscoperta. Le ristampe si sono moltiplicate. Ma, fino alla fine, Margo è rimasta lontana dai riflettori, anche quando, nel 2007, pubblicò “16 Words”, brano di protesta contro George W. Bush e le sue bugie sulle armi di distruzione di massa irachene (queste le 16 parole del testo: The British Government has learned that Saddam Hussein recently sought significant quantities of uranium from Africa). È scomparsa nel 2021, lasciandoci una produzione breve ma intensissima: un album ufficiale, molte demo, e nessuna falsa nota.

Ascoltare i Demos oggi è un atto di scoperta e gratitudine. È come trovare una lettera dimenticata da tempo e scritta apposta per noi. È la prova che la bellezza, anche quando non grida, può durare per sempre.

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Un ricordo personale

Scoprii i Demos prima di ascoltare Take a Picture, nei primi anni Duemila. Rimasi subito colpito dalla freschezza di quelle canzoni: erano demo, sì, ma già perfette, con una scrittura armonicamente intelligente e una grazia fuori dal tempo. Canzoni scritte per altri interpreti, eppure nessuno — nessuna — avrebbe potuto cantarle come lei. Forse è per questo che sono rimaste lì, in attesa: come piccole gemme che non hanno bisogno della luce dei riflettori per essere riconosciute tali.

by Fabrizio Gelmini

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