Occhio non vede, cuore…duole.
Non ne siamo coscienti, ma i nostri corpi sono inquinati (e da non poco tempo) da minuscoli frammenti di plastica. Invisibili a occhio nudo, le microplastiche sono ormai ovunque: nell’acqua che beviamo, nel cibo che mangiamo, nei vestiti che indossiamo e persino nell’aria che respiriamo. Dalle barriere coralline ai ghiacci dell’Antartide, nessun ecosistema n’è rimasto indenne…e anche l’organismo umano è diventato parte di questo ciclo artificiale e nocivo.
Le microplastiche (frammenti lunghi fino a cinque millimetri) derivano principalmente dalla degradazione di oggetti più grandi, ma vengono anche introdotte direttamente nei prodotti di uso comune, come vernici, detergenti e cosmetici. Secondo le stime, ogni anno ne vengono disperse nell’ambiente tra 10 e 40 milioni di tonnellate, una cifra destinata a raddoppiare entro il 2040.
“La plastica non scompare mai, si scompone solo in particelle sempre più fini”, ha affermato Desirée LaBeaud, professore di Pediatria e specialista in malattie infettive pediatriche presso la Stanford Medicine, nonché co-fondatrice del Plastics and Health Working Group presso la Stanford University. Le sue parole riassumono perfettamente la portata del problema: una sostanza nata per durare che, proprio per questo, non smette mai di esistere.
Dal laboratorio alla vita reale
La plastica è stata sicuramente l’invenzione per eccellenza del XX secolo: l’idea che ha trasformato il mondo. Dalla sua creazione nel 1907 a opera di Leo Baekeland, il nuovo materiale diventò presto sinonimo di progresso: leggero, economico, resistente, flessibile. Tra gli anni ’30 e ’40 gli scienziati ne svilupparono altre forme (poliestere, nylon, plexiglas), negli anni ’50 la sua produzione esplose, diventando elemento essenziale nella medicina moderna, nell’abbigliamento, negli anni ’60 contaminò persino il mondo del design negli arredamenti per interni e gli articoli monouso vennero celebrati come simbolo di modernità. Solo più tardi si comprese il rovescio della medaglia: la stessa durabilità che aveva reso la plastica un materiale rivoluzionario la rendeva anche un rifiuto indistruttibile.
Già negli anni ’70, piccoli frammenti di plastica vennero osservati dalle profondità oceaniche, nel plancton, alle vette montane, fino al Monte Everest.
Oggi sappiamo che la maggior parte della plastica prodotta nella storia (a eccezione di quella incenerita, che rilascia comunque metalli pesanti e sostanze chimiche tossiche) è ancora presente in qualche forma. Gli scienziati hanno trovato microplastiche (termine coniato per la prima volta nel 2004) in oltre 1.300 specie animali e, più recentemente, nei tessuti umani: cervello, testicoli, cuore, placenta, linfonodi, stomaco. Sono state rilevate persino nel latte materno e nel meconio dei neonati.
“Siamo nati pre-inquinati”, ha dichiarato ancora LaBeaud, sintetizzando una realtà inquietante.
Una minaccia ancora poco compresa
Purtroppo la ricerca sugli effetti delle microplastiche sulla salute è solo agli inizi. Studi condotti su animali e cellule umane hanno confermato che l’esposizione può portare a infiammazioni, danni cellulari, alterazioni metaboliche e problemi di sviluppo. Un lavoro pubblicato sul New England Journal of Medicine nel 2024 ha trovato microplastiche nella placca arteriosa di pazienti sottoposti a interventi cardiovascolari: chi ne presentava la presenza mostrava un rischio più alto di infarto, ictus e mortalità.
Ispirato da queste evidenze, Juyong Brian Kim, professore associato alla Stanford Medicine, conduce oggi studi pilota su animali e cellule che rivestono i vasi sanguigni. I suoi esperimenti indicano che le microplastiche e le nanoplastiche (particelle di dimensioni inferiori a 1 micrometro) possono penetrare all’interno delle cellule e alterarne l’espressione genica.
“Questi risultati suggeriscono che le particelle contribuiscono alla progressione delle malattie vascolari, sottolineando l’urgenza di studiarne l’impatto”, ha affermato Kim.
LaBeaud aggiunge una riflessione più ampia: “Sebbene i dati siano ancora piuttosto limitati, forse tutte queste epidemie che abbiamo – obesità, malattie cardiovascolari, tutti coloro che si ammalano di cancro – sono correlate. Si sta cercando di capire se siano collegate alla plastica che inaliamo e ingeriamo.”
L’impatto sui bambini e la ricerca clinica
I rischi potrebbero essere ancora maggiori per i bambini, i cui organi sono in fase di sviluppo. La dottoressa Kara Meister, otorinolaringoiatra pediatrica e chirurgo della testa e del collo presso la Stanford Medicine, ha notato un aumento significativo dei casi di cancro alla tiroide tra i più piccoli (spesso collegato a malattie autoimmuni) e ha deciso di studiare le microplastiche come possibile fattore interferente ormonale.
“Non è certamente dimostrato, ma se qualcosa è abbastanza piccolo da raggiungere l’interno delle cellule, potrebbe avere maggiori implicazioni sulla funzione o sulla segnalazione cellulare”, spiega Meister.
La difficoltà principale per i ricercatori è la mancanza di tecniche standardizzate per identificare e quantificare le microplastiche. Le particelle più minute, le nanoplastiche, sono ancora più sfuggenti ma potenzialmente più pericolose. Inoltre, la produzione di plastica coinvolge oltre 10.000 sostanze chimiche, di cui almeno 2/3 non è mai stata valutata per la sicurezza e oltre 2400 sono classificate come “potenzialmente dannose”. Capire quale siano le combinazioni e relative potenziali tossicità è una sfida immensa, visto anche che la stessa attrezzatura di laboratorio, in buona parte, è realizzata in plastica, rendendo così ipotizzabili eventuali contaminazioni.
Il mare è rivelatore
Degna di nota è anche la ricerca in corso nella baia di Monterey, in California, dove Matthew Savoca, ricercatore presso la Hopkins Marine Station della Stanford Doerr School of Sustainability, guida un gruppo di volontari che raccoglie campioni di sabbia, acqua e organismi marini.
“Sappiamo che ci sono centinaia di migliaia di miliardi di particelle di microplastiche nel mondo”, ha dichiarato. “Non si tratta solo di un problema di salute ambientale. Non si tratta solo di un problema di salute della fauna selvatica. È certamente un problema di salute umana.”
Il team di Savoca collabora con università, ONG e agenzie governative per mappare la diffusione delle microplastiche nell’oceano. Questi studi mostrano come le particelle non restino solo in superficie, ma si accumulino anche nelle profondità marine, trasportate dalle correnti o inglobate in “neve marina” (aggregati di detriti e microorganismi che contribuiscono al ciclo del carbonio). Le implicazioni per l’ecosistema e per la catena alimentare sono ancora oggetto di studio.
“Senza altri interventi, le microplastiche rimarranno intrappolate sulla superficie dell’oceano”, ha spiegato Jinliang Liu, ex ricercatore in scienze del sistema terrestre presso la Doerr School of Sustainability. “Scoprire le ragioni per cui scompaiono dalla superficie è fondamentale per affrontare questa sfida ambientale globale”.
Dalla ricerca alle soluzioni: un percorso difficile ma non impossibile
Per affrontare questa minaccia, gli scienziati di Stanford stanno sviluppando nuove tecniche di rilevamento. Tra queste, nei laboratori di bioingegneria, il gruppo guidato da Manu Prakash, docente di bioingegneria alla Stanford University, utilizza la spettroscopia Raman, un metodo non invasivo che sfrutta la luce laser, per identificare i polimeri plastici nei tessuti umani.
“Se vogliamo affrontare il problema in ogni angolo del mondo, dobbiamo pensare a strumenti che siano scalabili.”, ha spiegato Prakash.
Il team, che include anche Meister e altri ricercatori come Jennifer Dionne e Thomas Bae, ha già confermato la presenza di microplastiche in tonsille pediatriche e nei campioni sperimentali di laboratorio. L’obiettivo è creare una mappatura globale dell’esposizione umana alle microplastiche e correlarla con i dati sanitari.
Le valutazioni sui rischi per la salute, dovuti alle microplastiche, posso, però, variare considerevolmente a causa delle potenziali correlazioni con altri fattori quali la genetica individuale e l’esposizione ad altri materiali presenti nell’ambiente.
“Ma se vogliamo comprendere le implicazioni biologiche delle microplastiche e delle sostanze chimiche a esse associate, abbiamo bisogno di misurazioni precise, idealmente, su tessuti umani”, ha affermato Meister.
Cosa possiamo fare
E se da un lato, è sicuramente indispensabile il lavoro degli scienziati, dall’altro è altrettanto importante l’impegno da parte delle persone nel ridurre al minimo la propria esposizione alle microplastiche, soprattutto, l’uso di imballaggi in plastica e, in particolare, quelli monouso che entrano in contatto con alimenti e bevande. Scegliere abiti in fibre naturali, contenitori di vetro, giocattoli e di legno o metallo e evitare pentole e utensili in plastica. Anche piccoli gesti, come non riscaldare il cibo in contenitori di plastica o preferire prodotti sfusi, possono ridurre l’esposizione quotidiana.
“Per proteggere la nostra salute, tutti noi dobbiamo smettere di usare la plastica il più possibile, soprattutto quella monouso”, ha dichiarato LaBeaud.
Il futuro della plastica e della salute…di tutti
Amelia Meyer, scienziata ambientale e co-direttrice del Plastics and Health Working Group, invita però a non limitarsi alle scelte individuali: “A livello personale, questi cambiamenti fanno la differenza. Ma è anche importante ricordare che le microplastiche sono un problema sistemico. La vera soluzione sta nel promuovere normative migliori, materiali più sicuri e un minore inquinamento da plastica in generale.”
Il problema è globale e le soluzioni devono esserlo altrettanto. Stati Uniti e Europa hanno già vietato le microsfere di plastica nei cosmetici e introdotto limiti per le microplastiche aggiunte intenzionalmente ai prodotti e, sempre il governo U.S.A., si è posto l’obiettivo di eliminare la plastica monouso da tutte le attività entro il 2035.
Ma per LaBeaud tutto ciò non basta: “I responsabili politici dovrebbero stabilire limiti alla produzione di plastica, eliminare tutta la plastica monouso non necessaria e approvare un trattato globale per porre fine all’inquinamento da plastica.”
Finché questo non accadrà, la plastica continuerà a scorrere nel mare, nell’aria, nei fiumi e nei nostri stessi corpi. Forse, come suggerisce la ricerca di Stanford, non è troppo tardi per rimediare, è però altrettanto vero che ogni ritardo aumenta inevitabilmente il prezzo da pagare: un pianeta pesantemente contaminato da frammenti “alieni” invisibili e la salute della sua biosfera (umana inclusa) minacciata da ciò che un tempo ci sembrava soltanto pratico e indistruttibile.
Un paradosso planetario che necessita, indubbiamente, di un intervento globale.
Buona fortuna a tutti noi quindi, e felice notte…venerabili.
by O. D. B.
Fonti: