Rubrica BARRIERE MENTALI
Riflessioni su preconcetti, luoghi comuni e stereotipi che avvolgono e oscurano il libero pensiero, generando una rappresentazione distorta della realtà. Questi condizionamenti si ripercuotono su ogni aspetto della vita quotidiana, dalla sfera personale a quella professionale, estendendosi anche al mondo digitale, e contribuiscono a rafforzare credenze infondate.
Alle origini del concetto di disabilità.
“Io non sono la mia carrozzina, così come nessuno sarà mai il suo paio di scarpe. Ognuno di noi è le proprie abilità, non le proprie difficoltà!”
Questa frase di Jacopo Melio, giornalista e attivista per i diritti delle persone con disabilità (autore, tra gli altri, di “È facile parlare di disabilità”), riassume in poche parole le basi su cui si regge la prospettiva dell’inclusione che, come afferma il prof. Lucio Cottini, ordinario di Didattica e Pedagogia presso l’Università di Urbino, “…persegue l’obiettivo di promuovere una scuola delle differenze, in grado […] di offrire un’accessibilità uguale a ogni studente lungo tutto il percorso formativo: una scuola, come recita la Carta di Lussemburgo (European Commission, 1996), «per tutti e per ciascuno».”
Questo orientamento, quindi, considera la diversità come un punto di forza, una condizione fondamentale per costruire ambienti in grado di accogliere tutti: i bisogni particolari acquistano una dimensione sociale e non più un semplice deficit degli individui con disabilità.
Ma che cos’è la disabilità?
Sicuramente, tutti noi abbiamo in mente le Paralimpiadi, ma cerchiamo di esaminare più da vicino questo concetto ampio e articolato che ha subito, nel corso del tempo, una profonda revisione sia dal punto di vista scientifico che sul piano socioculturale. Le riflessioni in merito a questa tematica, così complessa e delicata, abbracciano più aspetti a cominciare da quello linguistico: da un punto di vista lessicale, per esempio, è emersa un’inadeguatezza delle espressioni utilizzate per descrivere la disabilità che, spesso, si sono rivelate potenzialmente offensive o portatrici di informazioni scorrette, pregiudizi e stereotipi.
Nel 1980, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), nella classificazione ICIDH (International Classification of Impairments, Disabilitites and Handicaps), opera una distinzione terminologica definendo i concetti di menomazione, disabilità e handicap.
La menomazione è rappresentata dalla perdita o anormalità a carico di una parte o struttura del corpo (fisiologica o anatomica quindi) o di una funzione psicologica.
La disabilità è la limitazione o perdita (conseguente a menomazione) della capacità di compiere un’attività di base (camminare, mangiare, lavorare) nel modo o nell’ampiezza considerati normali per un essere umano.
Merita particolare attenzione l’origine e l’evoluzione del concetto di handicap, qui definito come quella condizione di svantaggio (conseguente a una menomazione o a una disabilità) che limita o impedisce l’adempimento di un ruolo considerato normale in relazione all’età, al sesso e al contesto socioculturale della persona.
Curiosità.
L’etimologia della parola “handicap” viene fatta risalire alla locuzione inglese hand in cap “mano nel cappello”, utilizzata nell’ambito delle scommesse ippiche per indicare gli svantaggi attribuiti in gara ai concorrenti più forti, in modo da dare a tutti i partecipanti la stessa probabilità di vittoria: i cavalli più giovani e veloci venivano caricati con dei pesi, o partivano da una posizione arretrata rispetto agli altri, e i fantini più dotati erano obbligati a tenere una mano sulla testa, nel berretto, appunto, “hand in cap”.
Solo agli inizi del Novecento questo termine comincia ad essere utilizzato in riferimento alla disabilità e vive tanto a lungo da essere confermato nel 1992 dalla famosa Legge 104 che afferma:
“È persona handicappata colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione”.
È doveroso precisare che l’handicap non può essere identificato unicamente con la menomazione da cui deriva, bensì, è lo svantaggio determinato da un contesto che richiede ad una persona prestazioni superiori a quelle che è in grado di offrire.
Tanto per capirci.
Se la mia menomazione mi procura una disabilità tale che mi costringe, ad esempio, su una sedia a rotelle e, per andare al lavoro o in qualsiasi altro luogo necessiti, non vi sono pedane, accessi o strutture adeguate per farmi muovere liberamente, allora, io ho un handicap.
Breve riflessione.
Mancanza di accessi adeguati, presenza di impedimenti alla libertà di movimento personale: riflesso fedele delle stesse inadeguatezze, delle stesse barriere mentali e dei pregiudizi con cui tutti, in un modo o in un altro, ci confrontiamo ogni giorno.
Indubbiamente, la classificazione ICIDH e la legge 104 hanno innescato un cambiamento di paradigma che ha portato a un grande risultato: la de-responsabilizzazione della persona disabile per le proprie difficoltà.
Nel 1999 l’OMS ha eliminato ufficialmente la parola “handicap” dalle proprie comunicazioni e dai documenti ufficiali, fino ad arrivare, nel 2001, alla pubblicazione della “Classificazione internazionale del funzionamento, della disabilità e della salute” (ICF) che definisce la disabilità come un prodotto socioculturale, ovvero, una condizione di salute in un ambiente sfavorevole, condizione rilevabile esaminando tutti quegli elementi che possono influire sulla qualità di vita di una persona: dalle funzioni psicologiche ed emotive alle condizioni fisiche, passando per le attività personali e le interazioni sociali, fino ai fattori ambientali.
L’obiettivo dell’OMS è quello di cogliere le difficoltà nel contesto socioculturale in cui le persone sono immerse, conoscere la loro quotidianità nell’ambiente in cui vivono.
Nel 2002, la Commissione Europea, nel documento di lavoro “Delivering e Accessibility – Improving disabled people’s access to the Knowledge Based Society”, ha definito la disabilità come:
“(…) l’insieme di condizioni potenzialmente restrittive derivanti da un fallimento della società nel soddisfare i bisogni delle persone e nel consentire loro di mettere a frutto le proprie capacità”.
Finalmente una nuova crepa su una vecchia barriera…
La questione dell’inclusione scolastica.
Al termine di questo breve excursus sorge spontaneo chiedersi come mai ci sia ancora chi insiste ad affermare che le classi differenziate, abolite in Italia nel 1977, rappresentino un supporto e non una discriminazione verso gli studenti disabili.
Il rapporto tra disabilità e scuola è complesso e costellato di una serie di questioni ancora aperte.
Per quanto riguarda la mia esperienza personale ho avuto un percorso scolastico decisamente turbolento. Non perché non fossi bravo (ok! la matematica non era il mio forte…mi sono sempre piaciute le materie umanistiche), bensì, mi sentivo privato di una vera forma di inclusione.
Spesso, infatti, si pensa che sia sufficiente agire esclusivamente a livello fisico e strumentale. Se, per esempio, hai bisogno di un banco “speciale” l’Ausl ti prescrive quel determinato ausilio ma, se per qualche motivo, non viene fornito quello che la Convenzione ONU per i Diritti delle Persone con Disabilità definisce “accomodamento ragionevole”, ecco che si crea la disabilità.
Sono situazioni come queste che portano, poi, ad un vortice di difficoltà come quelle che mi hanno reso davvero difficoltoso il percorso per il diploma.
In quel vortice, per esempio, c’è stata anche la proposta di “differenziarmi”, ovvero annullare tutto il mio iter formativo conferendomi un semplice attestato di partecipazione (invece del diploma) al termine del V anno delle superiori.
Una situazione, discriminatoria, frutto di alcuni docenti secondo i quali non ero in grado di concludere gli studi solo per il fatto di essermi sottoposto a due interventi chirurgici in due anni: anziché frazionare ulteriormente il programma, avevano paventato di togliermi l’opportunità di conseguire il diploma.
Ho fatto questo piccolo cenno alla mia esperienza personale per cercare di fare un po’ di luce su cos’è e che cosa non è l’inclusione scolastica: una tematica fondamentale sia per chi presenta delle difficoltà ma anche per chi apparentemente non ne ha.
Citando la nostra bellissima Costituzione, l’articolo 3 dice:
“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Questo articolo è a me molto caro, poiché, dal mio punto di vista, sintetizza magnificamente il concetto di inclusione.
L’inclusione si pratica non solo fornendo degli strumenti fisici ma, innanzitutto, attraverso l’empatia, coinvolgendo la persona disabile nell’ambiente scolastico e fornendole gli strumenti relazionali e comunicativi adeguati.
In quest’ottica, l’insegnante di sostegno non è più solo un docente assegnato al ragazzo o alla ragazza con disabilità, ma diventa un divulgatore di opportunità di crescita per l’intera classe, poiché è nell’ambiente scolastico che si creano le fondamenta di quella società in cui ognuno di noi si muove tutti i giorni.
Ecco perché separare le classi non è funzionale: si continuerà a vedere la persona con disabilità come un’eccezione e non come un elemento del tutto.
Come sostiene anche Fabrizio Acanfora, scrittore, blogger e divulgatore scientifico di tematiche riguardanti lo spettro autistico, solo attraverso l’inclusione si cresce insieme e, inoltre, afferma che “convivenza delle differenze“,è esattamente questo: se c’è interazione, tra la persona con disabilità e il resto della classe, c’è una crescita collettiva in “armonia” dove tutti apprendono l’empatia e la sensibilità in un equilibrio di parti. Ma questo è possibile solo se allo studente vengono dati gli strumenti per crescere, se nella scuola si instaurano le basi socio-relazionali ed emotive per interagire “bene” con la società che sta fuori, consentendo a ciascuno di raggiungere lo stesso obiettivo in tempi diversi e in modi diversi.
Tutto questo, però, non deve sfociare nella visione (ancora molto diffusa purtroppo) che, per meritarsi la parità a livello di opportunità, una persona disabile debba diventare una specie di “super-disabile”.
Un maldestro, seppur sicuramente in buona fede, tentativo di difendere l’inclusione scolastica che, solitamente, prende come esempio il caso di Stephen Hawking, invitando a riflettere su cosa accadrebbe oggi all’astrofisico britannico se la scuola prevedesse delle classi differenziate: molto probabilmente la nostra società si priverebbe di un genio della cosmologia.
Molti attivisti e divulgatori scientifici, tra cui lo stesso Acanfora, spiegano che questa sorta di “tranello motivazionale” è problematico sotto diversi punti di vista.
Inspirazione pornografica.
L’argomentazione cade anche nell’Inspiration Porn: termine, coniato dall’attivista disabile Stella Young, per descrivere quella narrazione che vede le persone disabili “sbandierate” come una sorta d’ispirazione, raccontando la disabilità in termini di “limiti da superare” e non rappresentandola, invece, come il risultato di quelle barriere create dagli ideali di quella “società performante” fatta a misura di persona “normale”.
In pratica, una narrazione perversa che dice:
“Se sei disabile ti accettiamo a patto che tu abbia un’intelligenza straordinaria, che tu sia un atleta straordinario, che tu faccia cose straordinarie, …che tu sia un disabile straordinario!”
Manco a dirsi, questo punto di vista stride con la realtà: la stragrande maggioranza delle persone, disabili e no, non aspirano a essere astrofisici o atleti olimpionici ma, indubbiamente, hanno ugualmente diritto a vivere vite significative e piene, indipendentemente dal raggiungimento di traguardi accademici o professionali…eccezionali.
Arringa finale.
La scuola inclusiva è preziosa, fondamentale non tanto per far emergere il potenziale genio nascosto in alcuni (e certo non a prezzo di una competitività smodata e di un’insensata discriminazione) ma, essenzialmente, perché, riconoscendo ad ogni individuo il diritto di partecipare pienamente alla vita della comunità scolastica, diventaluogo per eccellenza dove apprendere la convivenza, sviluppare una sana empatia tra le persone nel rispetto delle peculiarità, capacità e caratteristiche di ciascuno…diventare un migliore essere umano.
PS. A proposito del fuorviante esempio di Stephen Hawking, è doveroso precisare che l’illustre scienziato ricevette la diagnosi di malattia degenerativa del motoneurone a 21 anni e ci vollero altri anni ancora prima che si presentassero i primi sintomi, quindi, se fosse un bambino oggi, non frequenterebbe in ogni caso una scuola speciale.
Giovanni Giuliano