
Un coro che arriva dal mare, inciso nei solchi di un disco
Nel 1974 la Topic Records — storica etichetta britannica specializzata in folk — pubblica “Sailor’s Songs & Sea Shanties – A Classic Collection of Sea Songs and Shanties”. È una compilation di canzoni che hanno il sapore di una bottiglia gettata in mare mezzo secolo fa, incrostata di salsedine e ancora gocciolante.
I 26 brani qui proposti furono raccolti e registrati da due figure leggendarie del folk britannico: A.L. Lloyd (1908–1982) ed Ewan Mac Coll (1915–1989). Il primo, autodidatta, pastore di pecore in Patagonia, comunista dichiarato e poi studioso accanito di canzoni popolari, fu anche scrittore e giornalista musicale. Il secondo, figlio di immigrati scozzesi, nato come James Henry Miller, fu cantante, drammaturgo e militante politico, fondatore del movimento The Critics Group, oltre che compagno della cantante Peggy Seeger. Entrambi condividevano una fede incrollabile nel potere del canto popolare come voce autentica del proletariato.
Ed è questo tipo di canzoni che Lloyd e Mac Coll hanno raccolto in Sailor’s Songs & Sea Shanties: non semplici e onorevoli canzoni popolari, pensate per lo svago contadino, per amori da dichiarare o per feste in piazza, quanto piuttosto canzoni per lavorare: la musica pensata non per intrattenere o far riflettere, ma canzoni cantate come colonna sonora funzionale al lavoro. Con voci che sembrano cesellate da troppe botti di whisky e lo spirito da sindacalisti del mare, Lloyd e Mac Coll salvarono queste canzoni dall’oblio, dando voce a secoli di ciurme scomparse nella bruma dei tempi.
Ma cosa sono, davvero, i sea shanties?
“Shanty” — il termine è di origine incerta, probabilmente una corruzione anglofona del francese chanter (cantare) — indica un canto da lavoro nato a bordo delle navi mercantili, baleniere o militari tra XVII e XIX secolo. Lo scopo era pratico: coordinare lo sforzo fisico collettivo dei marinai durante manovre come issare le vele, tirare l’ancora, pompare acqua.
Erano strumenti di sincronizzazione muscolare, ma anche di sopravvivenza psicologica. In condizioni estenuanti di lavoro, in turni massacranti e sotto rigide gerarchie, la voce dello shantyman (il cantante solista) era un’ancora mentale, un incitamento ritmico e narrativo.
Alcune versioni delle canzoni di questa raccolta sono documentate già nel XVIII secolo, ma affondano le radici nella tradizione orale ancora più antica, tramandate di bocca in bocca, di barca in barca.
Le varianti, ovviamente, abbondavano: canti diversi si usavano a seconda della manovra — halyard shanty, capstan shanty, short haul— e ogni porto le arricchiva con la sua contaminazione culturale. Canti globali ante litteram, nascevano a Boston, si trasformavano a Kingston e tornavano mutati a Liverpool.
Brani che risuonano come onde nella notte dei tempi
Questa raccolta presenta pezzi tradizionali, adattati e interpretati con rispetto filologico ma anche con verve teatrale (In Authentic Performances, riportano le note del retro di copertina). Alcuni tra i più noti:
“Drunken Sailor” – brano documentato almeno dal 1830, si usava per i compiti mattutini leggeri, ed è forse il più conosciuto anche al di fuori dell’ambiente folk. Ritmo incalzante, melodia ossessiva e testo ovviamente sempre aggiornabile.
“What shall we do with a drunken sailor, early in the morning?”
“Leave Her, Johnny” – cantato tradizionalmente l’ultimo giorno di lavoro su una nave, tra risentimenti e nostalgia. Risale alla metà del XIX secolo, e chiudeva simbolicamente il contratto di bordo.
“Oh the times were hard and the wages low / Leave her, Johnny, leave her!”
“Blow the Man Down” – canto da “halyard”, probabilmente risalente all’inizio del 1800, ma con origini precedenti. Descrive vita dura, risse e fregature da marinaio. Questo brano ha ispirato anche l’omonimo film noir del 2019, Blow the Man Down, ambientato in un villaggio costiero del Maine dove il canto diventa simbolo di una comunità che nasconde segreti sotto la superficie salmastra.
“Come all ye young fellows that follow the sea / To me way, hey, blow the man down!”
“Haul Away Joe” – canto da traino breve, dal ritmo spezzato e incalzante, con origini incerte ma radici antiche. Testo spesso improvvisato, a metà tra nonsense e satira sociale.
“When I was a little lad / Me mother always told me…”
Accanto ai brani eseguiti esclusivamente a cappella — come vuole la tradizione più austera del canto da lavoro — la raccolta include anche alcune canzoni accompagnate da strumenti, che aggiungono profondità emotiva e varietà timbrica senza tradire lo spirito originario. È il caso di brani come The Dreadnought, Row Bullies Row e Lowlands Away, dove l’intreccio tra voce e accompagnamento strumentale (semplici fisarmoniche) evoca atmosfere più intime, malinconiche, talvolta crepuscolari.
In questi momenti, l’ascolto si fa più contemplativo che ritmico: le melodie, sostenute da armonie scarne, rimandano a certe ballate “minori” di Nick Cave, come The Willow Garden,
o al primo Bob Dylan, quando la sua voce graffiante e nasale si poggiava su trame folk essenziali, ricalcando la struttura dei canti popolari britannici e irlandesi (Girl from the north country/ Boots of Spanish Leather, Bob Dylan’s dream, tra tutti). Non si tratta di semplici affinità stilistiche: sia Cave che Dylan — in modi diversi — hanno costruito la propria poetica scavando negli archivi della musica tradizionale, facendone materiale vivo, trasformativo. I sea shanties, in questo senso, sono un anello importante di quella catena invisibile che collega il canto popolare di bordo a forme contemporanee di narrazione musicale: canzoni come bussole emotive, come cronache orali di un’umanità fragile e resistente, che non solo hanno affascinato Cave e Dylan,
ma anche artisti come The Pogues (basti pensare a brani come Sally MacLennane o The Sick Bed of Cuchulainn, con la loro estetica ruvida e corale),
Tom Waits (la cui estetica teatrale deve molto all’archetipo dello shantyman, in particolare in Singapore, Shore Leave o Fish & Bird)
o i più recenti The Decemberist (noti per le loro narrazioni storiche e marinare, come in The mariner’s revenge song).
Il valore della registrazione fonografica
Questi canti, scritti non per il palco, non per scalar classifiche o partecipare ad un contest, sono stati preservati grazie alla lungimiranza di collezionisti e ricercatori del secondo dopoguerra. A.L. Lloyd ed Ewan MacColl hanno registrato centinaia di versioni direttamente dalla voce di ex-marinai, pescatori e lavoratori portuali, usando i primi magnetofoni portatili. Era una corsa contro il tempo, per fermare la dissoluzione della memoria orale.
L’etichetta Topic Records fu una delle prime a capire che la fonografia poteva non solo documentare ma anche tramandare. Ogni traccia è un’ancora lanciata oltre i decenni, in cerca di orecchie pronte ad ascoltare.
Curiosamente, i sea shanties condividono molto con un’altra potente tradizione: quella dei work songs afroamericani, nati nei campi di cotone, nelle prigioni, lungo i binari delle ferrovie statunitensi. Anche lì, il canto era strumento di resistenza, sincronizzazione del lavoro forzato, espressione collettiva sotto oppressione. In entrambi i casi, la voce diventava corda di salvataggio per l’identità umana in ambienti disumanizzanti.
La trasmissione fonografica ha reso possibile la salvezza di interi mondi acustici marginali. Riascoltare oggi questi canti, in un’epoca di archivi infiniti, è come rimettere insieme pezzi di un continente sommerso.
Perché ascoltarli oggi?
Perché sono voci collettive e ribelli, perché parlano di lavoro, di sfinimento e di resistenza, in un mondo dove il ritmo era dettato dal vento e dal tempo e non da un algoritmo. Perché ci raccontano un’epoca in cui il mare era mezzo di sopravvivenza, strumento di fatica, pericolo, magari avventura.
Oggi il quadro è stravolto: il mare non è più campo di lavoro e canto, ma passerella scintillante vista dai ponti di navi da crociera, è rotta affollata di merci senza volto, sfondo esotico per selfie da social e, peggio, confine e barriera, se non tomba silenziosa, per migranti che la Storia, con automatica indifferenza, sposta da una riva all’altra.
E allora, ascoltando questi canti di uomini che lottavano contro le onde per un pasto e una paga misera, non possiamo che domandarci con inquietudine:
quali canzoni ci consegnerà il mare del futuro?
Forse, tra detriti e rottami, anche domani qualcuno troverà una bottiglia incrostata di salsedine, e dentro ci sarà un ululato inciso nei solchi — la voce della memoria che ancora si ostina a galleggiare.
Sailor’s Songs & Sea Shanties è questo: un documento musicale, una nave-fantasma sonora, un’epopea di voci stentoree e immortali, che provavano a dare un ordine all’operare umano, una piccola ancora di salvezza nel mezzo delle vaste e sconfinate odissee umane.
…mettete su il disco. Chiudete gli occhi. Salpiamo. Buone ferie.
by Fabrizio Gelmini