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“Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me. Queste due cose io non ho bisogno di cercarle e semplicemente supporle come se fossero avvolte nell’oscurità, o fossero nel trascendente fuori del mio orizzonte; io le vedo davanti a me e le connetto immediatamente con la coscienza della mia esistenza”.  I. Kant da “ Critica della ragion pratica”.

Mi è tornato in mente quando da bambina, affascinata dalle stelle, guardavo e riguardavo le pagine finali di una specie di enciclopedia che si usava tenere in casa come arredo, e fantasticavo ore e ore sulle stelle, sui pianeti, sulle galassie, sui buchi neri, su questo spazio e tempo infinito. In campagna poi qualche annettofa, le notti estive erano splendide e la via lattea nitida e chiara davanti ai miei occhi.  Un’attrazione estatica, forse simile al richiamo ancestrale che ha sempre spinto l’uomo, fin dalla notte dei tempi, a volgere lo sguardo alle stelle per orientarsi sulla terra, invocare aiuto o protezione, o più banalmente prendersi un sospiro alzando gli occhi al cielo in cerca di un’ispirazione. E le notti d’estate in quella campagna. Quel fresco ristoratore, i grilli, la quasi pressochè assenza di rumori umani, quella profondissima quiete. Mi prendeva un senso di grandezza, di espansione, di bellezza, di mistero, di amore. Probabilmente quello che sentivo era la percezione di essere qualcosa di più di un animale. Se c’era qualcosa che risuonava in accordo con la percezione dell’infinito, questo qualcosa doveva essere anche in me. 

E sempre questo qualcosa mi spingeva a pensare a quello che avrei fatto da grande, a che contributo avrei dato. Volevo fare l’astronauta, esplorare “mondi e mondi e sistemi di sistemi”, come parecchi bambini del resto in ogni tempo probabilmente. Esplorare le profonde e misteriose immensità dello spazio. Perdermi negli abissi, nei sovrumani silenzi. 

E nello stesso tempo quell’abisso misterioso che ogni sera mi si manifestava davanti agli occhi mi  provocava anche una sorta di vertigine, facendomi sentire un minuscolo puntino in quest’ universo sconfinato, facendomi chiedere “ ma che peso possono avere nell’universo i miei pensieri, le mie preoccupazioni, quello che voglio o che non voglio, i miei successi, i miei fallimenti, tutte le mie faccende, se faccio o non faccio qualcosa, infine la mia esistenza tutta?”. 

Magari, non pensavo proprio proprio con queste esatte parole. 

Poi son cresciuta e la vita che c’è stata mi ha fatto perdere, e per lungo tempo, queste percezioni. E altro è diventato più rilevante, tra cui il riconoscere, alquanto oggettivamente,  la dimensione finita della mia esistenza, di avere una data di scadenza, un termine, una fine, e che qualsiasi cosa grande avessi potuto fare, sarebbe poi passata, finita. Di essere “un organismo dotato, chissà come, per un attimo, della forza vitale e che poi avrebbe restituito all’universo le particelle di cui è stato composto”. Ma se guardo le stelle o mi guardo dentro, posso sentire ancora il senso dell’infinito.

Allora la questione è .. come mi rapporto all’infinito? Razionalmente non riesco a coglierlo, mi genera un corto circuito mentale, è qualcosa fuori dalla mia comprensione intellettuale o meglio, come essere umano, non ho la dotazione sensoriale e cognitiva per coglierlo. Ma parimenti, come dice Kant, è davanti a me e in me. È qui. Non ho bisogno di cercarlo, basta orientare lo sguardo dentro di sé o verso le stelle, per sentire la dimensione dell’infinito. E posso essere un astronauta che naviga e naufraga nell’infinito di entrambe le dimensioni. E la connessione tra questi due spazi infiniti, alimenta il senso del mio esistere e da bambina era così chiara e cristallina. Come si fa a rimanere un po’ bambini?   

Ad ogni modo, se la sperimento questa connessione, allora esiste. Anche se impossibile da concettualizzare, da padroneggiare, da definire

Ma di cosa potrebbe essere fatta questa connessione? Cosa lega il finito all’infinito? Cosa lega l’infinito che sento dentro e l’infinito che vedo fuori? Cosa riconcilia le dualità in una cosa sola? Dovrebbe essere qualcosa di necessario di per sé, incondizionato, che non dà nessuna garanzia di risultato, che non dà neanche nessuna garanzia sul suo essere vero. Forse è quello di cui si parla sempre, da sempre, in miliardi di modi diversi, su cui sono stati costruiti miti, archetipi, favole, storie, poesie, tragedie, film, libri. La forza più pervasiva che, letteralmente, costruisce il nostro cervello mentre interagiamo da neonati con lo sguardo di chi si prende cura di noi. “L’amor che move il sole e l’altre stelle”.

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