QUANDO LA DISABILITÀ INCONTRA IL LAVORO
“Ogni volta che impariamo qualcosa di nuovo noi stessi diventiamo qualcosa di nuovo”.
Questa frase di Leo Buscaglia può essere applicata anche al mondo del lavoro inteso come messa in discussione di se stessi e percorso di crescita personale.
Nell’opera “Di pari passo. Il lavoro oltre l’idea di inclusione” Fabrizio Acanfora definisce la realtà lavorativa come “Un’organizzazione che concede a tutti pari opportunità di provarci, non necessariamente di riuscirci, perché la reale parità si verifica nell’avere le stesse opportunità, anche di non farcela, e mette ciascuna persona in condizione di esprimere i propri talenti individuali incentivando le espressioni delle proprie qualità laddove altri invece vedono deficit o limiti […]”.
Purtroppo la realtà dei fatti è diversa e i dati pubblicati dalla Commissione UE nel 2022 parlano chiaro: in Europa il 51,3% delle persone disabili ha un lavoro, contro il 75,6% di quelle senza disabilità.
Divario stipendiale e discriminazione intersezionale
Lo scorso 27 agosto l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) ha pubblicato uno studio sui risultati occupazionali e salariali delle persone con disabilità1, evidenziando che, a livello globale, le persone disabili che lavorano ricevono una retribuzione media oraria inferiore del 12% rispetto a quella degli altri dipendenti e che il 9% di questo divario non è attribuibile a differenze relative a livello di istruzione, età e tipo di lavoro svolto, ma dipende principalmente dalle varie condizioni di disabilità2.
Se la disabilità si combina con altre variabili socio-culturali e personali, la situazione si aggrava ulteriormente: il divario salariale tra lavoratori disabili e non, per esempio, giunge al 26% nei Paesi a reddito basso e medio-basso e, in generale, si rileva una disparità retributiva legata al genere, tra donne e uomini con disabilità, che si aggira intorno al 6% nei Paesi sviluppati e al 5% nei Paesi in via di sviluppo.
A tal proposito, in un celebre articolo del 19893, l’attivista e giurista statunitense Kimberlè Crenshaw parla di “discriminazione intersezionale” o “intersezionalità”, definendola come “l’intreccio di oppressioni derivante dalla sovrapposizione di diverse identità sociali nella stessa persona”.
Queste identità variano da individuo a individuo e Acanfora sottolinea come “[…] ogni tentativo di ingabbiare questa varietà in categorie discrete equivalga a un atto di normalizzazione della diversità” 4.
Giovanni: la mia esperienza
Credo di aver sperimentato in prima persona questa tipologia di discriminazione quando durante i miei studi, in particolare alle superiori, mi sono trovato a dover valutare proposte formative finalizzate all’inserimento nel mondo del lavoro non in linea con le mie attitudini e, soprattutto, con le mie personali aspirazioni. Avevo perennemente la sensazione di dover seguire un percorso “già deciso” da altri senza tenere conto della mia opinione e del mio grado di soddisfazione. Per esempio ricordo che, quando si affrontava l’argomento del mio percorso post diploma, mi venivano proposti corsi di cucina o laboratori di falegnameria, mentre io amo scrivere e dipingere.
Paradossalmente era come se alcune di queste figure professionali, che si occupavano di redigere un Piano Educativo Individualizzato sulla base delle mie caratteristiche ed esigenze personali, non riuscissero ad andare oltre la mia disabilità.
Altre tipologie di discriminazione in campo lavorativo
Analizzando più dettagliatamente la situazione lavorativa delle persone disabili che riescono a trovare un’occupazione, lo studio dell’ILO evidenzia come spesso ricoprano mansioni che richiedono una qualifica inferiore rispetto al titolo di studio conseguito e come il loro percorso sia caratterizzato da periodi di disoccupazione più lunghi, con una minor probabilità di usufruire di premi e raggiungere scatti di livello.
In molti casi i disabili sono lavoratori autonomi e svolgono la loro professione nelle proprie abitazioni, in modo da non doversi spostare verso le aziende.
Questi svantaggi, che si configurano come dei veri e propri ostacoli alla realizzazione di un progetto inclusivo, sono determinati da fattori contestuali su cui è necessario intervenire, come la limitata offerta di alloggi accessibili vicino ai luoghi lavoro e, soprattutto, la discriminazione nei confronti delle persone con disabilità in ambiente lavorativo.
E la legge? Come tutela i lavoratori disabili?
Nella sua sezione finale, lo studio dell’ILO passa in rassegna i riferimenti normativi che a livello nazionale ed internazionale dovrebbero garantire pari opportunità per tutti i lavoratori con disabilità, evidenziando come troppo spesso i loro dettami siano disattesi.
Basti pensare che nei Paesi dell’area Ocse solo il 44% delle persone disabili ha un’occupazione, contro il 75% delle persone che non hanno una disabilità.
A che punto siamo in Italia?
Allo stato attuale nel Bel Paese, secondo gli ultimi dati pubblicati dall’ISTAT ed elaborati da Manageritalia, le persone disabili tra i 15 e i 64 anni che hanno un’occupazione sono solo il 32,5%, contro il 58,9% della media nazionale.
Anche nel mercato del lavoro è quindi necessario promuovere un cambiamento di paradigma, una visione della disabilità come risorsa e opportunità di “arricchimento”.
Dal punto di vista giuridico, l’inserimento e l’integrazione occupazionale delle persone con disabilità sono regolamentati dalla Legge 68/99 5, attraverso la quale è stato stabilito il numero di lavoratori disabili che un’impresa deve assumere in base alle proprie dimensioni:
- uno per le aziende con un massimo di 15 dipendenti;
- due per le aziende che ne hanno più di 35;
- il 7% del totale degli occupati per le aziende con più di 50 dipendenti.
L’introduzione della normativa ha sicuramente rappresentato un punto di svolta, incrementando i livelli di occupazione delle persone disabili – dal 40,2% del 2011 a oltre il 52% nel 2022 – e diffondendo un approccio manageriale sempre più orientato verso l’inclusività: basti pensare all’introduzione del disability manager, una figura professionale specializzata nella progettazione e attuazione di politiche e procedure atte a favorire l’accesso al lavoro per le persone con disabilità.
La strada ovviamente è ancora lunga e molti passi restano da compiere, considerando che il 62,2% dei disabili tra i 45 e i 64 anni risulta essere in cerca di un’occupazione o inoccupato.
A tal proposito Tomaso Mainini, amministratore delegato di PageGroup, azienda leader a livello internazionale nel settore della ricerca e selezione specializzata, sottolinea l’importanza di promuovere un processo di recruiting6, accessibile a persone con disabilità, realizzabile attraverso l’utilizzo di job board adeguate, l’adozione di un linguaggio inclusivo negli annunci di lavoro e la revisione degli algoritmi di screening delle candidature.
Per concludere, uno studio condotto da Boston Consulting Group (BCG)7 sottolinea che il 46% dei lavoratori italiani disabili, o affetti da malattie croniche, non rivela la propria disabilità (soprattutto quando è di tipo non visibile) nel contesto professionale per timore di discriminazioni, effettivamente subite dal 43% che ha il coraggio di comunicare tali informazioni personali. I lavoratori disabili riportano, inoltre, 2,8 punti in meno nell’indice BLISS 8, che misura il loro grado di inclusione rispetto al resto degli occupati.
Le persone con disabilità hanno quindi tendenzialmente un’esperienza lavorativa meno soddisfacente che si ripercuote in modo negativo sul benessere mentale e fisico, oltre che sulle relazioni amicali e familiari.
Come e perché favorire l’inclusione
Per creare contesti di lavoro accessibili, secondo Sara Taddeo, Diversity, Equity & Inclusion Senior Manager di BCG, è necessario sviluppare politiche e programmi specifici per le persone disabili affiancandole con percorsi di mentorship.
I benefici di un tale approccio si ripercuotono sia sul grado di soddisfazione dei singoli lavoratori che
sul clima dell’impresa e sul suo livello di produttività.
Una ricerca condotta dalla McKinsey & Company (9)evidenzia infatti che un’azienda più inclusiva ha una maggiore probabilità di aumentare la propria redditività (+25%) e il proprio grado di attrattività per gli stakeholders, sviluppando una maggiore apertura verso l’innovazione, una migliore capacità di problem solving, un incremento della rapidità dei processi decisionali e uno sviluppo più efficace dei propri talenti interni.
A questo punto, dopo aver esaminato dati e percentuali, viene da chiedersi se il concetto di inclusività sociale possa sempre essere schiacciato dalla sete di extraprofitto.
by Giovanni Giuliano & Sara Vecchi
fonti e note:
(1) Ananian, Sevane; Dellaferrera, Giulia. A study on the employment and wage outcomes of people with disabilities. ILO Working Paper, 2024.
(2) Dati aggiornati a fine 2022.
(3) Kimberle Crenshaw, Demarginalizing the Intersection of Race and Sex: A Black Feminist Critique of Antidiscrimination Doctrine, Feminist Theory and Antiracist Politics, in The University of Chicago Legal Forum, vol. 140, 1º gennaio 1989, pp. 139–167.
(4) da “In altre parole. Dizionario minimo di diversità” edizioni Effequ 2021
(5) Nota anche come “Norme per il diritto al lavoro dei disabili”e promulgata il 12 Marzo del 1999.
(6) Processo di selezione e reclutamento del personale
(7) Your Workforce Includes People with Disabilities. Does Your People Strategy? – 2023
(8) Acronimo di Bias-Free, Leadership, Inclusion, Safety, and Support
(9) Diversity wins: How inclusion matters – 2020