L’evoluzione geopolitica dell’Asia centrale, a partire dall’invasione sovietica dell’Afghanistan del 1979, ha posto le premesse per l’elaborazione della teoria fondamentalista del “nemico vicino” (identificato con i regimi islamici moderati) e del “nemico lontano” (identificato in particolare con gli Stati Uniti). Ancora oggi, i paesi dell’Asia centrale rappresentano uno snodo energetico rilevantissimo, oltre a essere tra i più grandi produttori di stupefacenti al mondo, i cui proventi finanziano il terrorismo e alimentano la corruzione e la criminalità.
Attualmente, la nuova ascesa dei talebani in Afghanistan potrebbe destare forti preoccupazioni per la sicurezza dell’Europa.
In questo quadro, l’intelligence risulta decisiva, in quanto espressione della capacità di previsione e di analisi dei “segnali deboli”, che vanno trasmessi ai decisori pubblici per compiere le scelte più adeguate in tutela dei cittadini.
Dopo l’11 settembre, gli americani hanno invaso prima l’Afghanistan e poi l’Iraq. Interventi che si sono conclusi con il ritiro definitivo delle truppe statunitensi alla fine del 2021. A riguardo, si è diffusamente argomentato sul fallimento dell’intelligence attribuendole, come fosse un capro espiatorio, tutte le responsabilità dell’accaduto. Tuttavia, quando si parla di fallimento dell’intelligence si tratta sempre, invece, del fallimento della politica, come confermano anche i recenti fatti della Striscia di Gaza.
Il vero fallimento degli interventi attuati in Asia centrale, a partire dal settembre 2001, è il risultato della strategia della cosiddetta “esportazione” della democrazia, un sistema politico che, purtroppo, vive un drammatico periodo di crisi proprio nei paesi dove la si pratica.
Inoltre, ancora una volta, la fallimentare operazione nel territorio Afghano, ha dimostrato la sottovalutazione della “cultural intelligence”, che non si può identificare semplicemente con un banale problema linguistico, ma comprende bensì la conoscenza storica, religiosa e culturale dei territori dove le azioni militari si svolgono.
Per il docente è fondamentale comprendere le vicende asiatiche riflettendo sul ruolo dell’intelligence nel “grande gioco”, riprendendo l’omonima opera di Peter Hopkirk, che si riferiva alle attività di spionaggio, svolte proprio nell’Asia centrale dell’Ottocento, nelle contese tra impero britannico e impero zarista.
E’ importante analizzare tali fenomeni con attenzione, poiché le evidenze sono davanti agli occhi di tutti ma, appunto per questo, spesso sfuggono ai più.
Lo storico israeliano Yuval Noah Harari ha spiegato come, in un mondo sommerso da informazioni irrilevanti, il vero potere consista nel sapere quali informazioni ignorare. In questo scenario, la lucidità può rappresentare una raffinata forma di potere. Il concetto di “crisi della democrazia” deriva, principalmente, dall’inadeguatezza nella formazione e selezione della rappresentanza.
Di conseguenza, i “regimi democratici” vengono resi credibili da un sistema mediatico deviato, attraverso una sistematica e continua propaganda.
L’incoerenza dell’ipotesi di esportare il “modello democratico” in paesi con cultura e storia differenti dall’Occidente.
Probabilmente, tale fallimentare supposizione è stata poi utilizzata in differenti modi. Modi dove potrebbero intersecarsi ragioni economiche legate all’industria delle armi, alle reti del commercio delle droghe e alla preoccupazione di porre un argine preventivo alla prevedibile espansione della Cina.
Come aveva intuito Samuel Huntington, ne “Lo scontro di civiltà”, i conflitti, dopo la guerra fredda, sarebbero stati principalmente di tipo culturale.
In tale prospettiva, anche lo scontro tra Ucraina e Russia da un lato e tra Hamas e Israele dall’altro potrebbero essere interpretati come scontri culturali e di differenti sistemi di governo, ponendo sullo sfondo anche la tensione tra “Washington Consensus” (libere elezioni ma basso tasso di sviluppo economico) e “Beijing Consensus” (ridotte, se non nulle, libertà elettorali ma alto tasso di sviluppo economico).
Si conferma così la più significativa asimmetria prodotta dalla globalizzazione, o meglio, i differenti metodi di selezione della classe dirigente che avvengono, o per elezione e concorso (sistemi democratici), o per cooptazione (sistemi autoritari, criminali e terroristici).
I conflitti in atto sono quindi di natura prevalentemente culturale, e vengono combattuti attraverso le guerre dell’informazione cognitiva e normativa.
Uno scenario particolarmente complesso dove sta emergendo la strategia cinese della “nuova via della seta”, un crocevia di ingenti risorse economiche che comprende territori con rilevanti interessi criminali nella droga e nell’illecito, che sono concentrati anche nel cyber il quale segna, in maniera determinante, insieme all’intelligenza artificiale, l’evoluzione dell’ordine mondiale.
Questi argomenti vanno sempre collegati con le attività di intelligence che rappresentano la salvaguardia dell’umano, e delle sue facoltà, nel confronto con l’intelligenza artificiale.
Diventa allora essenziale il ruolo dell’intelligence, inteso come strumento per garantire il benessere e la sicurezza dei cittadini, ribadendo che, nel nostro Paese, la sicurezza è un bene costituzionale preminente.
Il mondo, che si sta delineando, rappresenta per molti aspetti una “terra incognita”, segnata dall’incertezza e dall’imprevedibilità.
Alcuni fenomeni, come la pandemia, il ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan la crisi Ucraina erano stati previsti dall’intelligence.
Robert Dahl, uno dei più significativi studiosi della democrazia del secolo scorso, affermava: “la democrazia è un viaggio senza fine, si potrà allargare, restringere o diventare altra cosa, ma il futuro è troppo incerto per poter dare una risposta univoca”.
Anche secondo John Dewey “alla crisi della democrazia bisogna rispondere con più democrazia”.
La “società della disinformazione” teorizzata nel 2012, l’emergenza educativa e democratica del nostro tempo, sta già emergendo come quello che potrebbe essere il tema principale dei prossimi anni, rappresentato essenzialmente dalla disuguaglianza, che è il risultato delle ingiustizie sociali, a volte legittimate per legge, e dalla globalizzazione che sta acuendo i divari tra paesi ricchi e paesi poveri.