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I Bambini e la Guerra, la trilogia non originaria – Sciuscià

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I bambini e la guerra...Classici del “neorealismo” alla Cineteca di Bologna. "Il vero realismo non è una copia di questa o di quella circostanza di vita, ma la scoperta dell'essenza dei fatti, della loro legge psicologica o filosofica''.  (A. Tarkovskij) “Sciuscià” di Vittorio De Sica, 1948. Il “sogno” del cavallo.
By OLDTIMER

OLDTIMER presenta i Bambini e la Guerra – prima parte: Sciuscià

Dopo aver consigliato la lettura di un piccolo libro che presenta la traduzione italiana di una commedia teatrale di Orson Welles (Miracolo ad Hollywood), ne sottolineerei una battuta ironica, messa in bocca a Mr. Behoovian, in risposta allo sceneggiatore Plaice, che afferma : “…al posto degli attori, usano gente presa dalla strada” e che “..laggiù (in Italia, riferendosi al neorealismo) …tutti gli italiani sanno recitare, ma che i meno bravi sono proprio gli attori”. Il personaggio, secondo Welles, rappresenta un tipico produttore hollywoodiano. Sappiamo cosa pensasse Welles dei produttori hollywoodiani e quanto ironia nei loro confronti venga espressa in quest’operetta, come sappiamo che Welles, pur distante dal neorealismo italiano, ne apprezzasse più di un’opera e che lavorò spesso in Italia. Uno dei film che più apprezzò di questa corrente fu proprio Sciuscià (uscito nel 1948) di Vittorio De Sica.

La cineteca di Bologna ne ha presentato in anteprima, a febbraio di quest’anno, una versione restaurata nei laboratori della Cineteca stessa. Proposta con una lunga presentazione del direttore Gianluca Farinelli.

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Il film di De Sica è uno dei momenti più significativi anche della rassegna tematica della Cineteca dello stesso mese , intitolata “I bambini ed il cinema” che ha visto, tra l’altro, al suo interno altri film come “Germania anno zero” di Roberto Rossellini del 1948 e “L’infanzia di Ivan” di Tarkovski del 1962 .

Di “Sciuscià” è già stato detto, è vero, più di quanto sia possibile dirne. Orson Welles, però, come mago dell’illusione e del necessario gioco di velamento e svelamento che l’idea di verità comporta, forse ci può sollecitare a vedere come il neo realismo di De Sica in “Sciuscià” ci possa portare su un terreno imprevedibile. Ma quale?

Certo, gli ingredienti del neorealismo sono ben presenti. Attori professionisti e non professionisti, come bambini e ragazzi di “strada”, la Roma del dopoguerra, segnata dal conflitto ed impoverita, la presenza del passato e la permanenza di mentalità ereditate dal regime fascista, l’inganno e la mancanza di scrupoli degli adulti, le autorità, che dovrebbero educare e prendersi cura dell’infanzia, e che ne ignorano,invece, ogni bisogno , ricorrendo, anzi, ai più perfidi inganni per estorcere la verità ai protagonisti. Tutto questo si vede, infatti, nel film.

Insomma, la povertà e la dissoluzione morale materiale di un paese provato da una guerra, tema oggi troppo spesso relegato più che altro, nonostante gli sforzi, a residuale programma scolastico,. Quindi?

De Sica – che ha immaginato e girato il film ispirato dalla conoscenza di due sciuscià romani – lo presentò, il giorno stesso della sua uscita nelle sale, in una trasmissione radiofonica, riproposta in apertura della proiezione alla Cineteca. Non solo una dichiarazione di poetica, ma anche un’appassionata, per quanto nel suo stile pacato e signorile, dichiarazione sui motivi e la finalità del film: riconoscere ed accettare le responsabilità degli adulti e rimuovere la cecità, l’indifferenza e la durezza dei carceri minorili, fino al loro superamento. Quasi una perorazione. Giustamente, ha ricordato il direttore della Cineteca, Gianluca Farinelli, introducendo , sostenuto anche dalla sua sensibilità religiosa.

Sappiamo, però, che l’accoglienza in Italia fu a dir poco negativa, nonostante il riconoscimento internazionale con il premio Oscar, e che arrivò persino la censura.Tentare di mostrare la realtà, le eredità tragiche e inumane del fascismo e della guerra e il rifiuto della retorica delle produzioni visuali del regime urtava contro un “passato che non passa” e contro le esigenze che scaturivano dai nuovi equilibri postbellici, cui il paese doveva forzatamente adeguarsi. Tanto più che, la corruzione morale ed umana, fenomenologicamente portata da De Sica alla realtà delle cose “visibili”, anche con un uso stilistico espressionista come il contrasto luce-ombra, colpisce tutti, perfino i ragazzi, coinvolti nelle logiche del mondo adulto e delle sue miserie.

Un’ utopia di De Sica il suo “realismo”, dunque? Cambiare il “mondo”, almeno in parte, con il cinema, che deve “mostrare” secondo “realtà”, ma poeticamente, anche con elementi da fiaba? Sì, utopia. Non sembra, infatti, che, dopotutto, gli innegabili progressi, in questo come in altri ambiti, siano stati risolutivi. Fortunatamente, però, questa utopia ha avuto al suo seguito molti geniali e fulgidi artisti e non si è mostrata, nonostante tutto, improduttiva. Mostrare solo la realtà, dunque? E’ così semplice? Basta? A queste domande sembra di veder rispondere De Sica stesso con il suo, anche in questo caso, signorile sorriso.

Realtà e “neo-realismo”, dunque. Ma si mostra, qui, un singolare (neo)realismo, direi un realismo simbolico, verrebbe da scrivere “magico”. Come lo è il cavallo, uno dei veri protagonisti, manifestazione viva e vitale dei sogni dei due ragazzi, che corre più veloce del vento, a comando, e che porta i due protagonisti per le vie di Roma, tra l’entusiasmo dei bambini e degli altri sciuscià, che vivono in un mondo a parte, anche nelle riprese del film, quasi ignorato dagli adulti. Un simbolo, dunque, di libertà e di riscatto.

Simbolo “reale” e vivente, ancorché fantasmatico, paradosso reso possibile , più che da altri mezzi espressivi, dal cinema, che rende reale e “verosimile”, secondo l’espressione di un noto romanziere italiano, una fiaba. Come dire che il cinema ha proposto, da subito vorrei invero dire, le sue grandi potenzialità di introdurci in una realtà autenticamente “aumentata” e a nuove domande su ciò che è vero e reale e su come l’essere umano possa percepirlo. Niente di meno che questa potente illusione, che questa potente fantasia, con tutte le sue grandi risorse, ma anche i grandi, potenziali e reali, rischi.

Non ci dilunghiamo sull’intreccio, del resto noto, della vicenda narrata. Ci vorrebbero un’esposizione ed un’analisi di ben altra portata. Ma, notiamo, nella chiusa, che, dopo la tragedia che ha portato alla morte di uno dei due protagonisti, il cavallo ridiventa un semplice cavallo, il lato fisico, concreto del simbolo, e torna, si può immaginare, come ogni cavallo, indietro, verso la sua stalla. Ha finito di essere colui che porta i due ragazzi, correndo più forte di tutti verso la loro libertà, segna la fine dell’illusione. Chi ha avuto l’avventura di non rimanere vittima dell’immagine stereotipa e bolsa di Leopardi che ancora, purtroppo, viene, talvolta, trasmessa nelle scuole, sa bene che l’illusione, nutrimento della fantasia, è una potente forza, quasi materiale e necessaria ad una vita veramente umana. E che è tanto più potente e vitale quanto è più vicina all’elemento dell’infanzia e della giovinezza. La sua fine, la sua neutralizzazione, contiene i germi del nichilismo.

La riserva di verità che si nasconde, rivelandosi tra le pieghe dei simboli, dello stile e dell’ipnosi delle immagini che il mezzo cinematografico rende possibile, consente in modo altamente attrattivo, anche se più sfuggente , per la sua velocità e per la difficoltà di ritenzione dell’immagine in movimento, forse, di sostenere ancora, seppure ad intermittenza e nonostante tutto, il permanere vitale delle illusioni. Anche con il loro lato oscuro, certo, e potenzialmente anche inquietante, come forza a volte ipnotica appunto, manipolativa, surrettizia. Capace, però, di folgoranti verità, altrimenti nascoste o meno evidenti , da rendere materia vivente per lo spettatore. Sciuscià appartiene a quest’ultima capacità espressiva? Ne sono sicuro.

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