Il cinema dell’impunità e degli “arcana”. Elio Petri e “L’indagine su un cittadino al disopra di ogni sospetto““ (1970). Personaggi ed interpreti principali: Gianmaria Volontè (il commissario); Florinda Bolkan (Augusta Terzi). Musiche di Ennio Morricone. Prima parte.
Elio Petri: come presentare un regista fuori dallo spirito del tempo?
E non perché ne manchino anche ora altri che vedano ancora il cinema come strumento etico e politico, come mezzo per rivolgersi al “popolo”?
Vero è che, oggi, questa categoria è già stata consunta, svuotata e corrotta da “populismi” e individualismi di varia forma – termini, sia chiaro, che, andando indietro nel passato, hanno identificato anche prospettive di pensiero e realtà storiche degne – e da una retorica spesso ridondante. Era regista tra i più discussi anche allora – tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta.
Tra le sue opere di maggior successo e notorietà “Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto” potrebbe risultare forse il più difficile da collocare nella contemporaneità degli ultimi decenni. Forse potranno essere d’aiuto due grandi autori che lo stesso Petri chiama in causa: il russo Dostoevskij ed il ceco Kafka.
A merito della Cineteca di Bologna va ascritto il restauro della pellicola di Petri presso i laboratori de L’Immagine Ritrovata, e la sua riproposizione, che ci consente di poter visionare di nuovo il film nell’originale. Fu premiato con l’Oscar come migliore film straniero nel 1971 e Premio speciale della giuria al Festival di Cannes nello stesso anno. Interpreti e personaggi: Gian Maria Volonté (il ‘dottore’), Florinda Bolkan (Augusta Terzi); musiche di Ennio Moricone
E’ noto, ma va richiamato, che “Indagine” rischiò la censura e che subì numerose e accanite critiche, in una particolare contingenza storica del nostro paese. Uscito nel febbraio1970, di fatto in contemporanea o quasi con eventi drammatici della nostra storia, ebbe, comunque grande successo, che lo preservò dalla censura stessa e dall’oblio già allora. Fa parte della cosiddetta “trilogia della nevrosi”, segnatamente la “nevrosi del potere”, insieme a “La classe operaia va in paradiso”, 1971 (la “nevrosi del lavoro”) e “La proprietà non è più un furto”, 1973 (la “nevrosi” del denaro”).
Chi ha passato quegli anni, anche per motivi anagrafici, come un periodo della propria formazione personale non necessita più di tanto di leggerne da qualche parte o di una qualche ricostruzione storica o di dibattiti dedicati di carattere storico (sempre auspicabili!), tanto quegli eventi si sono impressi nella sua memoria e nella sua formazione, appunto, esistenziale, personale e collettiva.
Oggi, quegli anni sembrano, questa è la sensazione, però distanti, come appartenenti ad un secolo lontano. A differenza di altri momenti del passato, sono rimasti come sommersi nel sottosuolo della nostra storia e della nostra memoria. Difficile parlarne, ricordarli e, qualora accada di farlo, accade spesso che non ci si sottragga a radicali giudizi di condanna, spesso sentenziosi e troppo apoditticamente espressi.
Segno di un lascito irrisolto. Non si intende qui procedere ad analisi, rammemorazioni e tanto meno ricostruzioni. Tanto meno, ancora, riprendere polemiche ideologico-politiche, che, spesso, travolgono i fenomeni storici fino ad oscurarli e che risulterebbero, comunque, fuori tempo massimo. Si rievocano solo, come se fossero titoli di brevi paragrafi, alcuni di questi reperti: “autunno caldo”, “contestazione (meglio:contestazioni) giovanile, “strategia della tensione” e “terrorismo”, “conflittualità permanente” con tante altre connesse possibili espressioni ormai uscite dal vocabolario comune, come “conflittualità sociale” o anche “estremismi”, magari doppi, concetto questo che consente la facile cancellazione e neutralizzazione di ciò che di volta in volta gli si associa e che magari “estremista” non è. O che hanno completamente cambiato segno e significato, come “grandi riforme” o l’inflazionato termine di “rivoluzione”.
Il film ci ricorda, dunque, l’epoca della “contestazione giovanile” e della conflittualità sociale “permanente”, dei primi gravi attentati terroristici di tipo eversivo. Fenomeni che vengono, salvo alcuni momenti e dal personaggio antagonista, l’anarchico Pace, visti e narrati dall’interno del Potere, con disprezzo ed irrisione. Costituiscono, però, anche un pericolo da affrontare unicamente con l’arma della repressione.
Senza nostalgie o tanto meno riproposizioni, si attende una loro valutazione non meramente storiografico o specialistica e meno legata agli esiti storici, d’epoca si vorrebbe dire, e politici. Rimando, inoltre, ad altri commenti e a studi più analitici i sommi capi della trama. Verranno proposte qui riflessioni e considerazioni che, sulla scia della stile del film, definito da alcuni, inopportunamente, “barocco” e segnato da sfasature e salti temporali, procederanno per associazione e germinazione.
Il film di Petri (1970), si colloca, quindi, storicamente, in un momento di svolta di quei decenni e, credo, però, ci possa schiudere temi che ne travalicano, pur richiedendoli, i caratteri e i fatti. Petri disse si, infatti, che voleva fare il primo film sulla polizia, in un paese in cui i poteri repressivi dello stato non avevano ancora fatto del tutto i conti con il passato ed esprime una visione personale esprimibile nella seguente citazione: “La polizia della Repubblica italiana, nei venticinque anni successivi alla caduta del fascismo, nonostante l’abolizione della pena capitale, ha perpetrato nelle strade e nelle piazze decine e decine di condanne sommarie contro masse indifese di operai e di contadini colpevoli unicamente di lottare contro la miseria e l’ingiustizia. Nessun poliziotto ha mai pagato per queste morti. Io provavo, e provo tuttora, un odio profondo nei confronti dei mandanti ‒ appartenenti alle classi dominanti ‒ e degli esecutori di questi assassinii. Tuttavia nel film mi interessava soprattutto descrivere il meccanismo che garantisce l’immunità ai servi del potere…”.
Con frasi messe in bocca al protagonista, il Commissario dell’anticrimine appena designato a capo dell’ufficio politico, come «il popolo è minorenne» e «la repressione è il nostro vaccino: repressione è civiltà», Petri ci porta al punto fondamentale dell’opera, vale a dire non solo all’equiparazione, da parte del titolare del potere, innanzitutto repressivo, di civiltà e repressione, ma anche alla proclamazione della sacralità della tradizione ed alla considerazione solo come fattispecie criminale di ogni forma di contestazione dell’ordine costituito.
Il tema di fondo è, quindi, l’impunità di chi detiene il potere, fino a consentire una sorta di “criminogenicità” del potere stesso, tema che, si anticipa, ci conduce poi a quello antico e attuale degli arcana imperii e della trasparenza. Tema di oggi, appunto, in cui i “ poteri”, nonostante o proprio in virtù della tanto desiderata trasparenza evocata e consentita dalle procedure istituzionali, dalle forme del diritto, dall’evoluzione delle sensibilità sociali e dalla circolazione di informazione tramite i nuovi media, sembrano aver superato proprio questi arcana, relegandoli nelle menti distorte di complottisti e “teorici” del deep state.
Nel film di Petri, l’impunità dovrebbe, alla fine mostrarsi, nonostante l’esplicita confessione del delitto da parte dell’insospettabile cittadino, il commissario (così viene unicamente chiamato, in modo impersonale) a capo dell’ufficio politico della questura. Questi dichiara, nella propria autodenuncia, il motivo, futile si direbbe oggi, dell’omicidio commesso: l’amante lo provocava e lo irrideva. Sappiamo che ne irrideva, in un rapporto al limite del sadomasochismo, soprattutto l’autorità, rinfacciandogli inoltre di essere “sessualmente incompetente”. Tace il commissario, però, oltre alle implicazioni psicologiche sottostanti al suo gesto, la motivazione più autentica: la sfida che aveva innalzato nei confronti delle regole in quanto incarnazione del “potere” e di cui si arroga la disponibilità. Ritenendosi al sicuro anche di fronte all’evidenza. Ma questa sicurezza viene lasciata, come vedremo, da Petri in sospeso: il finale rivela come la garanzia di impunità delle autorità sia, in realtà mostrata in un lucido sogno, ma sempre sogno. Interrotto proprio dall’arrivo delle autorità “reali”. Una duplicità, forse, c’è, dunque, nel film di Petri, al fondo. Il commissario lancia una sorta di sfida personale che dovrebbe trovare conferma del suo essere, comunque ed in ogni caso di rimanere, al di sopra di ogni sospetto in quanto “servitore” del potere e dell’istituzione. Qui identificati come garanti della Tradizione, dell’Ordine e dell’Autorità, strumenti necessari per governare la minorità del popolo e reprimere i “perturbatori”.
Paradosso? Il tema non è la Legge che giudica se stessa, ma che il giudizio secondo la legge (nella scena finale viene ripetuta una situazione ispirata, in modo paradossale, a “Il processo” di F. Kafka), giudica innocente chi incarna il potere per definizione, anche se scopertamente colpevole. E’ al di sopra di ogni sospetto, non del dettato della legge, in senso stretto, che utilizza invero ai propri fini. – Fine PRIMA PARTE