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“KAZE NO DENWA” il telefono nel vento

Una lama che ti attraversa il cervello mentre sei in auto per andare al lavoro…un noioso martedì mattina.

Ecco a cosa assomiglia…

…il ricordo di coloro che non ci sono più.

L’amico con il quale condividesti la prima sigaretta clandestina dietro la scuola, il tuo babbo e la sua risata contagiosa dopo quella sua battuta su Andreotti, quello zio che assomigliava così tanto al conte Mascetti.

Prima del dolore, del vuoto, prima di ogni inutile rimorso o rimpianto tardivo, prima di tutto, personalmente, quando ho vissuto l’addio “vero” di una persona amata, ogni mio senso, ogni mio neurone si sono mirabilmente attivati, coordinandosi nella migliore “consolatoria” ricreazione 3D di uno di quegli istanti.

Solo un istante.

Giusto il tempo per quel colpo di tosse causato da una Marlboro che non c’è, ma di cui senti distintamente il sapore…seguito da quella lacrima che ti fa tornare alla realtà.

La realtà “vera” che ha la forma una domanda:

E ora cosa faccio?”

…telefono!

No. Non è un volo Pindarico. Io odio i voli pindarici! Ma vi assicuro che leggendo la storia (vera) a seguire tutto vi sarà più chiaro.

Ōtsuchi è un villaggio di 16.000 anime esorge sulle sponde del suo fiume, incastonato, come una pietra preziosa, tra le verdi colline della regione di Tōhuko,sulla costa nord-est del Giappone. Sul promontorio all’imboccatura del porto si erge il suo caratteristico faro rosso e lì vicino, nascosto dai pini marittimi, c’è un tempietto shintoista.

È il 2010 e Itaru Sasaki, giardiniere appassionato ormai in pensione, si trova lì al tempio a pregare, come ogni giorno, da quando ha scoperto che a suo cugino, al quale è molto legato, hanno diagnosticato un cancro in fase terminale e gli restano non più di tre mesi di vita. Itaru si rivolge ai Kami, Spiriti Divini, chiedendo protezione per la sua famiglia e il suo amato cugino. Poche settimane dopo il cugino muore e, nonostante la fortuna del tempo concessogli per stargli vicino e poterlo salutare, il dolore e la sensazione di vuoto sono insostenibili.

Nella religione shintoista il contatto con la natura è considerato la forma più alta di contemplazione, così nei giorni a seguire Itaru cerca conforto nella cura del suo giardino.

Un giorno, vicino al capanno degli attrezzi, il forte vento alza un lembo di un telo di plastica lasciando intravedere una vecchia cabina telefonica in legno: un oggetto tanto comune un tempo e che oggi invece appare così strano.

Itaru non riesce proprio a ricordare come quella vecchia cabina sia finita lì nel suo giardino e nei giorni a seguire non riesce a distrarsene.

A volte certe cose si fanno senza una ragione e spesso sono quelle alle quali ci leghiamo di più.

Itaru decide di prendersi cura di quella “cosa strana”. La ripulisce, la vernicia di bianco, sostituisce i vetri rotti e la sistema nell’angolo preferito del suo giardino: la cima di un pendio, circondata da ciliegi e cespugli in fiore, sotto gli occhi azzurri e verdi del cielo e del mare…e soprattutto le trova un telefono. Sì, perché all’interno era rimasta solo la piccola mensola usata per poggiare gli effetti personali mentre si telefona. Rovistando in casa trova un vecchio telefono in bachelite, uno di quelli con la rotella per comporre i numeri. Chiaramente non c’è nessun cavo da collegare, quindi si limita a poggiarlo sulla piccola mensola ma poi, senza pensare, istintivamente, come farebbe un tecnico scrupoloso a fine lavoro, alza cornetta e l’avvicina all’orecchio. Volge lo sguardo al cielo con un leggero ghigno di autocommiserazione:

E ora cosa faccio?”

Sta per riagganciare…ma poi comincia parlare. Solo un filo di voce, un sussurro, poco più di un leggero soffio di vento verso Yomo, l’aldilà, dove ora si trova suo cugino.

Dice che sta bene, che gli manca, quanto vorrebbe averlo lì con sé per parlare, per farsi aiutare ad accudire quel giardino che anche lui amava tanto, per un altro abbraccio e infine:

Ciao. Ci sentiamo la prossima volta.”

I giorni passano e, quello che in un primo momento sembrava solo un’insensatezza, prende la forma di un gesto quotidiano tanto leggero quanto rassicurante. Un balsamo su una ferita che forse non sarà mai cicatrice, ma che un giorno potrebbe far meno male.

Una sopportabile parvenza di normalità che è destinata ad essere spazzata via nel pomeriggio dell’11 marzo 2011. Alle 14:46 si verifica una scossa di terremoto di magnitudo 9 a pochi chilometri al largo della costa giapponese dove si trova anche Ōtsuchi. Il sisma provoca uno tsunami con onde alte 40 mt. Una forza distruttrice devastante che non risparmia niente e nessuno, compresa Ōtsuchi. Il mare ingoia e trasforma ogni cosa in macerie e rottami indistinguibili. I morti saranno oltre 1.200, il 10% della popolazione e 500 persone non verranno mai ritrovate. Tutte le famiglie del villaggio perdono almeno un componente.

Una comunità distrutta nelle sue case, nelle sue scuole, le sue strade, le sue piazze, i templi, le chiese e nei suoi abitanti.

Anima e corpo straziati.

Rivolgersi in preghiera ai Kami non basta e il conforto degli Spiriti Divini non lenisce il dolore. Ma in città si mormora di uno strano telefono, una cabina per l’esattezza. Si trova nel giardino di quell’anziano che vive su, lungo la collina. Tanti sono i curiosi che cercano e chiedono in giro a proposito di quella cabina bianca, finché un giorno davanti alla porta di Itaru si presenta Fumika, una bambina di 10 anni: dice che ha sentito parlare del suo “telefono speciale”, un telefono che può far parlare chi è qui con chi non c’è più, come suo nonno, che lo tsunami le ha portato via e che le manca tanto. Chiede se può usare quel telefono per poterlo chiamare e fargli sapere che sta bene, che le mancano le giornate di pesca assieme e che gli vuole bene.

Itaru, senza riuscire a levarsi quell’aria stupita dalla faccia, accompagna la piccola lungo il vialetto tra azalee rosa e ciliegi in fiore fino alla cabina, la fa entrare, chiude la piccola porta e aspetta fuori. Pochi istanti dopo Fumika esce ringrazia con un kirei (tipico inchino giapponese, segno di grande rispetto) e se ne va…per poi ritornare la settimana dopo. E quella dopo…e quella dopo ancora. Passano i giorni, le settimane e altri si presentano timidamente alla porta di Itaru per poter fare quella telefonata. E lui li fa entrare.

Ogni volta, ogni singola volta che una di quelle persone esce dalla sua cabina telefonica, Itaru percepisce in loro un conforto sincero, una sorta di “lieve” felicità.

Decide di lasciare sulla mensola della cabina un quaderno e una penna, così chi lo desidera potrà scrivere qualcosa. Davanti casa mette un cartello con una grossa freccia indicante la posizione della cabina del telefono, così da permettere a chi voglia parlare con un caro defunto di recarvisi in autonomia. Ma cosa scrivere sul cartello che non risulti troppo triste? Itaru ripensa alla “sua prima volta” dentro quella cabina, a quel suo primo sussurro: “…poco più di un leggero soffio di vento.” Ecco!

KAZE NO DENWA

IL TELEFONO DEL VENTO

Il giardino di Itaru, con la sua cabina telefonica, è diventato una sorta di tempio dedicato all’amore più coraggioso, il più puro, ma anche il più difficile, perché contraccambiato solo nella dimensione immateriale, incorporea dei ricordi nelle menti e nei cuori di coloro che decidono di non dimenticare. Un tempio con il suo altare, dove i “fedeli” porgono offerte che hanno la consistenza di una voce sussurrata ad una vecchia cornetta in bachelite. Su questa “terra consacrata”, amore e speranza trovano di nuovo vigore e coraggio.

Qui il ricordo della vita che ieri fu ha la meglio sulla realtà della scomparsa che oggi è.

Qui la paura e la rassegnazione della morte non possono vincere…anche se solo nel breve intervallo di tempo di una telefonata, nello spazio di un giardino fiorito.

O.D.B

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