Ospite di Mario Caligiuri oggi è Michele Colajanni,
Professore dell’Università “Alma Mater” di Bologna - Dipartimento di Informatica - Scienza e Ingegneria. Fondatore della Cyber Academy per la formazione di hacker etici e del Centro di Ricerca Interdipartimentale sulla Sicurezza e Prevenzione dei Rischi (CRIS) presso l’Università di Modena e Reggio Emilia.
Colajanni afferma che non esiste più una distinzione netta tra il mondo fisico e digitale, poiché tutte le informazioni sono ormai digitali. Questa trasformazione è inevitabile e chi cerca di contrastarla è destinato a scomparire: nel privato, è già accaduto molte volte con il fallimento di aziende storiche; nel pubblico, non si verificano fallimenti formali, ma quelli sostanziali sono già in atto.
Una delle sfide principali che affrontiamo è la velocità con cui questa realtà evolve, con crescite esponenziali nel campo tecnologico. Questo avviene sia nel raddoppio delle prestazioni tecnologiche di sistemi e reti ogni 18-24 mesi, sia nella massiccia moltiplicazione dei dati.
Tuttavia, i dati stessi non sono informazioni, in quanto devono essere elaborati per diventare tali. Questa crescita complica il processo informativo poiché richiede analisi approfondite per individuare ciò che è rilevante. In tale contesto, il docente dell’Alma Mater sottolinea due aspetti cruciali: acquisire le informazioni e selezionarle in base ai propri interessi.
La sovrabbondanza di informazioni richiede una capacità di selezione e di individuazione sempre più sofisticata. Questa sfida non riguarda solo il lato tecnologico ma anche quello umano, che rappresenta oggi la vera sfida. Infatti, mentre le tecnologie migliorano esponenzialmente, al più la nostra capacità di analisi migliora linearmente. Tale competizione “scorretta” ci costringe a riflettere sui nuovi approcci che l’intelligence dovrà adottare nel breve periodo.
Per Colajanni bisogna avere molte informazioni, per conoscere in profondità un argomento politico, storico, geografico, tecnologico e quant’altro. La superficialità orizzontale non paga più perché è già coperta, prima dal Web e oggi anche dall’Intelligenza Artificiale. Chiaramente, una maggiore verticalità richiede anche la capacità di confrontarsi con altri, di condividere idee e analisi in un ambito di massima fiducia. In tempi complessi e in continua evoluzione, il trust è sempre più importante.
L’altro aspetto importante è imparare a padroneggiare strumenti che aiutino a recepire l’elemento informativo da enormi fonti di dati grezzi che non possono essere elaborati manualmente.
In questo, a inizio millennio l’Europa – e purtroppo a ruota anche il nostro Paese – ha delegato tale capacità ad altri. Non è chiaro il perché ma ci siamo affidati sempre di più alle Big Tech, che possono essere viste sia come inevitabili salvatrici sia come pericolose avversarie di molte nazioni. Le sette aziende con valore azionario di migliaia di miliardi quali Amazon, Microsoft, Google, Meta, Apple, Tesla e Nvidia hanno acquisito una profonda influenza sul nostro mondo digitale e stanno ora espandendo il loro dominio al mondo fisico.
La Cina non ha commesso l’errore europeo e si è dotata di propri titani dei servizi digitali nelle transazioni (Alipay, WeChatpay) e nelle comunicazioni, quali Baidu, Alibaba, Tencent, Huawei, Douyin (ByteDance e TikTok), che sono stati determinanti per consentirle di competere nel mondo digitale e di penetrare in tutta la popolazione. Senza la loro presenza la competitività e l’organizzazione delle informazioni cinesi risulterebbero impossibili.
La fondamentale distinzione consiste nel fatto che queste imprese, inizialmente lasciate libere di innovare e crescere, hanno progressivamente subito un controllo più marcato da parte del Partito comunista cinese che non poteva tollerare la libertà strategica, il loro potere economico e anche la possibilità di criticare un sistema illiberale che limitava la loro crescita.
L’Europa, al contrario, continua a cercare di regolamentare il mondo digitale senza avere un proprio “gigante”, un simbolo cui attenersi per dimostrare un caso esemplare al mondo digitale, così come può essere stata Airbus a inizio millennio. Questa mancanza solleva molteplici questioni di realizzabilità dei principi che si continuano a promulgare e che ricadono come continui oneri aggiuntivi sulle spalle delle aziende europee. Non è tanto un problema di etica riguardo al potere e al controllo delle informazioni, anche perché il concetto di etica è dibattuto quando si applica alle aziende. Come evidenzia Colajanni, sono passati gli anni ’70, quando il premio Nobel dell’Economia Friedman poteva sostenere che esiste un’unica responsabilità sociale per l’impresa: “Usare le sue risorse per dedicarsi ad attività volte ad aumentare i propri profitti, a patto di rimanere all’interno delle regole del gioco”. Oggi, per le grandi aziende, il focus è sulla Responsabilità Sociale e sull’innovazione sostenibile, ma questi elementi non possono andare a totale scapito del profitto e della crescita.
L’obiettivo fondamentale, oltre al profitto, delle “big tech”. Sebbene ci siano miliardi di clienti/utenti nel mercato digitale, le grandi sfide per i titani digitali consistono nell’indurre gli utenti a passare sempre più tempo on line sulle loro piattaforme. Infatti, il tempo è diventato la risorsa più preziosa, democratica e veramente non rinnovabile. È inevitabile che la competizione tra i grandi si focalizzi proprio su questo obiettivo. Purtroppo, ci sono riusciti benissimo e gran parte dei danni sociali e politici delle democrazie nasce da questo loro successo. Hanno reso gli utenti dipendenti dai loro prodotti, sfruttando meccanismi che stimolano la produzione di dopamina. Hanno accentuato le opinioni estreme o controverse, in quanto generano maggior interesse, coinvolgimento e reazioni emotive. Non c’è più tempo e spazio per il dialogo, l’attenzione si sposta su opinioni polarizzate e si creano estremismi. Dal punto di vista dei singoli utenti, la dipendenza crea “mostri” totalmente disinteressati alla riservatezza dei propri dati e pronti a sottoscrivere qualsiasi “termine di servizio” pur di scaricare l’app “necessaria” o accedere al servizio digitale “indispensabile”. Disintossicarsi, cambiare le norme, arrivare a patti con le Big Tech? Sono tutte opzioni possibili e probabilmente più efficaci del continuare a emanare norme su norme che nessuno conosce in profondità, spesso in competizione o contraddizione tra loro e che stanno conducendo l’Europa in un vicolo cieco. Il caso dell’Intelligenza Artificiale, il migliore strumento per ottenere informazioni da dati grezzi, è esemplare. Il mondo extra-europeo corre, alcune nazioni europee (ovvero le loro aziende) corrono per proprio conto al fine di non essere tagliate fuori dell’innovazione, ma noi ci auto-convinciamo di essere nel giusto, irrilevanti a livello mondiale ma nel giusto.
Non bisogna dimenticare che due sono le norme fondamentali che regolano il mondo digitale: il “Communication Decency Act” del 1996, che deresponsabilizza le piattaforme riguardo ai contenuti ospitati, e il “Global Electronic Commerce Act” del 1997, che sostiene il libero mercato a livello di dati e prodotti, in questo – a dir la verità – anticipato dai legislatori europei. Queste leggi hanno importanti ripercussioni ancora oggi, e difficilmente saranno soggette a cambiamenti.
Colajanni approfondisce poi l’importanza dell’innovazione nel mondo digitale, sottolineando che nel settore privato è indispensabile per rimanere competitivi, mentre nel settore pubblico è spesso mancante.
Il deficit di innovazione nel settore pubblico è dovuto a un’apparente mancanza di concorrenza e ha impedito la piena adozione della trasformazione digitale anche in settori chiave come l’università e la sanità, dove la competizione è in atto da anni. Evidenziando questa resistenza al cambiamento nel settore pubblico, Colajanni sottolinea la necessità di un nuovo approccio manageriale nella gestione di progetti innovativi che possano promuovere il cambiamento. Se non ci crede un top management ben formato e competente, nessuna amministrazione potrà raggiungere alcun obiettivo innovativo. L’AGID ha fatto molto, ma gli effetti rispecchiano la solita macchia di leopardo, molto variegata a livello di geografia e di settori, in quanto dipendente da singoli e non da un sistema. Se non sapremo guidare l’innovazione, ne saremo travolti, come l’uragano dell’Intelligenza Artificiale ci sta per dimostrare.
In conclusione, è importante mantenere all’interno del settore pubblico le competenze necessarie. Si possono esternalizzare molte funzioni operative, ma mai il pensiero strategico e la capacità manageriale di scelta e controllo. È fondamentale che anche l’intelligence possa guidare l’innovazione e il cambiamento con le migliori competenze interne, esternalizzando alcuni servizi che possano essere ben controllati. Visione strategica, managerialità nella scelta dei progetti prioritari e gestione operativa rappresentano i tre livelli che sussistono anche nel mondo digitale. Si tratta di promuovere e di consolidare – in tempi che cambiano esponenzialmente – le nuove competenze manageriali e di innovazione. Obiettivo arduo quanto indispensabile.