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“Il Nome della Rosa”…storia di un figlio detestato (?)

In una tiepida sera di maggio del 2011, in un suo intervento al Salone del Libro di Torino, Umberto Eco esordì come segue:

“…non aspettatevi che vi parli del Nome della Rosa! perché io ODIO questo libro e spero che anche voi lo odiate, perché di romanzi ne ho scritti 6, gli ultimi 5 sono naturalmente migliori ma, per la legge di Gresham, quello che rimane il più famoso è sempre il primo…”.

5 anni dopo, all’età di 84 anni, ci avrebbe lasciato senza cambiare idea…più o meno.

Forse è anche per questo che, quando Jean Jacques Annaud, da sempre appassionato di chiese e ambientazioni medievali, gli propose di realizzare un film tratto (molto) liberamente da quel “figlio” tanto disprezzato, Eco si limitò, come in un impercettibile annuire distratto, ad accettare che nei titoli di testa si parlasse di un “palinsesto dal Nome della Rosa”.

Annaud ha deciso di definire nei titoli di testa il suo film come un palinsesto dal Nome della rosa.

Un palinsesto è un manoscritto che conteneva un testo originale e che è stato grattato per scrivervi sopra un altro testo. Si tratta dunque di due testi diversi. Ed è bene che ciascuno abbia la sua vita.

Annaud non va in giro a fornire chiavi di lettura del mio libro e credo che ad Annaud spiacerebbe se io andassi in giro a fornire chiavi di lettura del suo film.

Posso solo dire, per tranquillizzare chi fosse ossessionato dal problema, che per contratto avevo diritto a vedere il film appena finito e decidere se acconsentivo a lasciare il mio nome come autore del testo ispiratore o se lo ritiravo perché giudicavo il film inaccettabile.

Il mio nome è rimasto e se ne traggano le deduzioni del caso.”

Umberto Eco

Il film uscì nell’ottobre del 1986, 6 anni dopo la presentazione del romanzo e 659 dopo quegli

“… eventi mirabili e tremendi…in un luogo remoto a nord della penisola Italiana in un’abazia di cui è pietoso e saggio tacere anche il nome”.

E’ sempre facile giudicare col senno di poi è vero! Ma è davvero difficile immaginare quel film senza il volto di Sean Connery.

E pensare che Sir Thomas Sean Connery in effetti non fu né la prima, né la seconda e neppure la terza scelta. Prima di lui vennero considerati Michael Caine, Richard Harris, Albert Finney, Marlon Brando, Ian McKellen, Roy Scheider, Jack Nicholson, Paul Newman, Yves Montand, Donald Sutherland, Max von Sydow, Vittorio Gassman, Frederic Forrest e Robert De Niro.

Quest’ultimo fu tra coloro che sostenne un provino piuttosto convincente, ma l’entusiasmo di Jean Jacques Annaud si dissolse quando l’attore pretese un duello all’arma bianca tra il suo personaggio e Bernardo Gui (interpretato da F. Murray Abraham).

Lo stesso Annaud ebbe difficoltà a immaginare il volto iconico di James Bond sotto il cappuccio del francescano Guglielmo da Baskerville, ma dopo il provino i suoi dubbi svanirono immediatamente. La sua decisione si dimostrò incrollabile anche di fronte alla Columbia Pictures che, una volta saputo della sua scelta, inizialmente minacciò addirittura di non finanziare più il film.

All’epoca Christian Slater aveva solo 15 anni e per il ruolo di Adso da Melk venne scelto tra centinaia di ragazzi. Una volta scritturato avrebbe dovuto partecipare all’audizione di tre ragazze, selezionate per il ruolo della ragazza che vive ai piedi del monastero e con la quale avrà la famosa scena d’amore. La prima con cui lesse lo script fu Valentina Vargas, le altre due attrici si sarebbero presentate il giorno dopo. Ma Slater rimase così impressionato dalla giovane, da chiedere a sua madre (Mary Jo Slater, agente di casting) di parlare con il regista e di convincerlo a nemmeno considerare le altre due attrici. Annaud, divertito e tutt’altro che infastidito assecondò il giovane dando così la parte all’attrice cilena.

Questo “pregiato arazzo” non sarebbe tale senza la figura dello spietato inquisitore Bernardo Gui, interpretato da F. Murray Abraham (reduce da un Oscar per il ruolo di Antonio Salieri in Amadeus), e i volti grotteschi, bizzarri a volte feroci dei monaci che sembrano incastonati come gargoyle tra le pietre dell’abbazia che popolano: Volker Prechtel, Michael Habeck, Helmut Qualtinger, William Hickey, e…Ron Perlman.

Ron Perlman (che aveva già lavorato con Jean Jacques Annaud ne La guerra del Fuoco nell’81) pregò insistentemente il regista per affidargli il ruolo di Salvatore. Ma il ruolo era già stato affidato all’italiano Salvatore Baccaro, il quale purtroppo morì nel 1984, poco prima dell’inizio delle riprese. Sotto l’insistenza del governo italiano (cofinanziatore del progetto) la scelta allora cadde su Franco Franchi, il quale però rifiutò quando seppe che gli avrebbero rasati i capelli. A questo punto Aron Perlman ebbe via libera.

Salvatore (come spiega Guglielmo al giovane Adso la prima volta che lo incontrano) usa “…tutti i linguaggi e nessuno”,così Perlman ebbe l’idea di creare le sue battute mischiandone le parole dalle versioni in tedesco, italiano e francese (e anche latino) nelle quali il romanzo era stato tradotto.

Il film venne girato in solo 16 settimane ma per la preparazione occorsero ben 5 anni. Le location si alternarono tra Cinecittà per gli esterni, l’abbazia di Eberbach in Germania per gli interni, Fiano Romano (dove venne ricostruita parte dell’abbazia di Rocca Calascio in Abruzzo) e per le scene finali una valle nell’Aquilano vicino Santo Stefano di Sessanio.

Castel del Monte, al contrario di quello che si crede, fu per lo scenografo Dante Ferretti (Oscar nel 2005 per The Aviator, nel 2008 per Sweeney Todd e nel 2012 con Hugo Cabret) solo una fonte d’ispirazione per la sua forma ottagonale. E sempre a Dante Ferretti dobbiamo il “volto” del personaggio che come un denso cielo livido avvolge tutto e tutti: la biblioteca segreta. La trasposizione visiva di Ferretti del dedalo di scale e corridoi, immaginata da Eco come un omaggio ai labirinti di Jorge Luis Borges, diventa “cosa viva” negli abbracci di luci e ombre impeccabili nella fotografia di Tonino Delli Colli (Storie di ordinaria follia, C’era una volta in America, La vita è bella). La fine del percorso, un luogo folle dove la saggezza e l’infinita sete di sapere di Guglielmo e la forza del giovane Adso si scontreranno con la ottusa, deviata, ossessiva fede del Venerabile Jorge. L’81enne Feodor Chaliapin Jr. interpretò Jorge de Burgos il Venerabile con una passione e una dedizione seconda solo al deviato amore verso la cristianità del suo personaggio. Durante le riprese della scena della morte di Jorge, una parte del soffitto del set in fiamme gli cadde sulla testa (lo si può vedere anche nel film). Il regista e tutto lo staff accorsero subito in aiuto, ma l’anziano attore scuotendosi la cenere di dosso sorvolò dicendo “Signori ho 81 anni!…la scena piuttosto! va bene?”.

Feodor Chaliapin Jr. visse altri 6 anni lavorando ad altre 12 produzioni cinematografiche.

Negli Stati Uniti l’accoglienza al botteghino fu deludente (poco più di 7 milioni di dollari), in Europa al contrario fece le scarpe a concorrenti blasonati come Top Gun e Platoon (oltre 77 milioni di dollari a fronte di una spesa di circa 18 milioni).

Riconosciuto con 5 David di Donatello (Miglior fotografia, costumi, produzione, scenografia e premio speciale David René Clair a Jean Jacques Annaud) e 3 Nastri d’Argento (Miglior fotografia, costumi e scenografia), mai figlio “detestato” fu dai più tanto amato.

Nel 2012 Eco presentò una versione riveduta e corretta de Il Nome della Rosa limitandosi a sottolineare che si trattava di una specie di procedura (N.d.R) che riservava a tutti i suoi lavori.

A me invece piace immaginarlo come un padre che riaccoglie (se non con un abbraccio almeno con una pacca sulla spalla) colui che un tempo apostrofò come un figlio negletto e che, grazie al riconoscimento del mondo, riconobbe degno.

Felice notte a tutti…venerabili Jorge

O. D. B. 

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