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“Robert Johnson: il Pupillo del Diavolo” – 3

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Qualcuno si è spinto fino a definirlo il “Mozart del Mississippi”, l’archetipo del musicista della strada…strada maledetta. Un artista avanti di decenni rispetto alla sua epoca.

Robert Leroy Johnson fu indubbiamente un chitarrista dalla tecnica irraggiungibile, ma anche un cantante, compositore e paroliere eccezionale. Di lui ci restano ventinove canzoni e un paio di foto. Solo nel 1967, a quasi trent’anni dalla sua fine, è saltato fuori anche un certificato di morte: una piccola certezza in un mare di racconti e sentito dire. E poi c’è la leggenda, la diceria dei più, la nebbia che avvolge tutto:

L’incontro con Satana.

Di notte, in un polveroso incrocio del Mississippi, dove un’anima tormentata valse un talento straordinario…e la leggenda della musica del diavolo prende corpo.

Dopotutto Robert Johnson già ci viveva all’inferno. Il Mississippi dei primi decenni del novecento, per i neri della zona del Delta, era un posto dove le uniche monete riconosciute erano la schiavitù, il razzismo e la sua violenza, i pestaggi e le uccisioni immotivati. Il giovanissimo Robert, da parte sua, due cose aveva chiare nella sua testa: non avrebbe mai messo piede nelle piantagioni di cotone e la musica sarebbe stata la sua vita. Questi sono stati indubbiamente il tempo e la terra natia del blues ma, tutt’oggi, si discute sulle origini di quei canti e di quella musica. Quel blues primordiale trova le sue radici nei canti di chiesa, nel gospel e in tutti coloro che trovavano conforto nella religione o invece nei canti traboccanti di dolore e rabbiosa rassegnazione nei campi di lavoro? Probabilmente la verità sta in mezzo. Così, in quelle piccole cittadine, chiesa e diavolo convivevano come due facce della solita moneta: da un lato la profonda fede di chi frequentava la chiesa, per la maggior parte donne, e dall’altra l’ira, il dolore e la frustrazione di chi si perdeva nei bar, nei locali, dove musica e parole nuotavano nell’alcol.

In questo contesto, paradossalmente grazie anche alle invettive diffuse da quei solerti predicatori battisti dai pulpiti delle loro chiesette, fu facile per quel “blues rurale” (e alcolico…) l’ascesa fino alla definizione di:

“Musica del diavolo”.

Robert Johnson, uno dei più grandi e influenti musicisti del ventesimo secolo e la sua oscura biografia prendono vita in questo mondo “underground”.

Da considerarsi il primo, inoltre, a inaugurare il “Club dei 27”, ovvero dei musicisti morti prematuramente a 27 anni: Jimi Hendrix, Janis Joplin, Kurt Cobain, solo per citarne alcuni. Nel 1986 è stato tra i primi musicisti a essere inserito nella “Rock and Roll Hall of Fame”, nella categoria Early Influences.

L’impareggiabile combinazione di tecnica chitarristica, canto e improvvisazione condensate in quelle ventinove storiche registrazioni (23 novembre 1936 – 20 giugno 1937), ha rappresentato la pietra angolare per intere generazioni di musicisti a venire: Eric Clapton e Bob Dylan in primis e poi i Rolling Stones, gli Allman Brothers, Johnny Winter, Muddy Waters, Jimi Hendrix, i Cream, Jeff Beck, i Led Zeppelin e altri ancora.

Poche sono le notizie attendibili sulla sua vita privata: Robert nasce (forse) l’8 maggio del 1911 ad Hazlehurst. Alla sua nascita, la madre, Julia Major, è ancora sposata con Charles Dodds, con il quale ha avuto già dieci figli; all’epoca, però, l’uomo l’ha abbandonata. Robert è figlio infatti del nuovo compagno di Julia: Noah Johnson, lavoratore in una piantagione del Mississippi.

Il piccolo Robert Johnson trascorre i primi anni della sua vita a Memphis col padre e i figli avuti dalla nuova relazione; è Charles Melvin Leroy, uno dei tanti fratelli, a dargli i primi rudimenti alla chitarra e all’armonica. Quando la madre si risposa con Noah, Robert torna a vivere nel Delta e il suo carattere ribelle non tarda ad emergere. Come il lavoro nella piantagione, anche la scuola non fa per lui.

Mack MacCormick (musicologo e folklorista statunitense) in una sua biografia scrive:

“Johnson non aveva nessun tipo di istruzione, anche se sapeva scrivere il suo nome e lo stretto necessario con una grafia ordinata”.

L’unica via che egli vede davanti a sé è la musica…più che una via un’ossessione.

Il grandissimo musicista di Delta Blues e amico di scorribande, Son House, ricorda così il giovane chitarrista:

“Tutti quanti suonavamo ai balli del sabato sera e questo ragazzino non se ne perdeva uno. […] Suonava l’armonica e anche piuttosto bene. Ma la sua vera passione era la chitarra. Si sedeva per terra di fronte a me e Willie Brown e osservava prima uno e poi l’altro, alternativamente. Quando ci fermavamo per riposarci, lasciavamo le chitarre in un angolo e ci sedevamo al fresco. Robert guardava da che parte andavamo e ne prendeva una. Peggio di lui credo non ci fosse nessuno! La gente impazziva e veniva a dirci: «Perché non togliete di mano la chitarra a quel ragazzo!» Allora io tornavo indietro e lo rimproveravo: «Non farlo Robert, non sei proprio capace! Perché non suoni un po’ l’armonica, invece?». Ma lui non voleva e non gli interessava neppure quello che dicevo. Lo avrebbe fatto comunque.”

Già! All’inizio, Robert Johnson, con la chitarra, è una frana!

Nel 1929, appena diciottenne, il chitarrista si sposa con la giovane Virginia Travis, di appena quindici anni, e si trasferisce a Robinsonville. Dopo solo un anno la donna, incinta, e la nascitura muoiono di parto. Johnson è sconvolto, furioso e comincia a vagare fra le città del Mississippi. Donne e alcol diventano l’unica costante nelle sue giornate “senza Dio”. Probabilmente è in questo periodo che prende forma la figura tormentata di Robert Johnson: giovane, disperato, alcolizzato, errabondo del Delta, alla ricerca della prossima donna da abbandonare e della musica perfetta da realizzare.

Robert frequenta artisti come David Honeyboy EdwardsRobert NighthawkElmore JamesSonny Boy Williamson IIHowlin’ WolfJohnny Shines.

Quest’ultimo racconta di quel periodo:

“Siamo stati in viaggio per giorni e giorni, senza soldi e a volte senza cibo, alla ricerca di un posto decente dove passare la notte. Abbiamo suonato in strade polverose e bar sporchi, e mentre io ero senza fiato e mi vedevo vivere come un cane, c’era Robert tutto pulito come se fosse uscito da una chiesa la domenica!”

Johnson fa perdere le sue tracce. Quando riappare, il chitarrista goffo e mediocre che tutti schernivano, si è trasformato in un musicista eccezionale. Le sue lunghe dita ora riescono a dar vita ad accordi e ritmi nuovi, inesplorati, sonorità che saranno la base del rithm’n’blues e del rock’n’roll.

È questa capacità improvvisa, apparentemente non umana, che solo mano divina o artiglio infernale possono donare, che incute paura a tutti. E se è vero che Dio dona la salvezza eterna è anche vero che il Diavolo non ha eguali per un baccanale come si deve, così tutti pensarono a quell’unica surreale spiegazione:

L’incontro col diavolo.

La leggenda che questi avesse stretto un patto col diavolo vendendogli l’anima in cambio della capacità di suonare la chitarra come nessun altro fu alimentata, soprattutto, dallo stesso Johnson. Col passare degli anni quella diceria non fece altro che prendere corpo grazie alla sua stupefacente tecnica chitarristica, basata sul fingerpicking (considerata una delle massime espressioni del Delta blues), la sua voce, capace di modulazioni estreme, le complesse strutture musicali e il sinistro contenuto dei suoi testi, traboccante di spettri, demoni…e dettagli sul quel diabolico e scellerato accordo.

Johnson, comunque, non era l’unico bluesman a cantare del diavolo: Tampa RedSkip JamesJoe WilliamsLonnie Johnson e Peetie Wheatstraw (quest’ultimo, addirittura, si soprannominava Il Genero del Diavolo dopo una delle sue registrazioni del 1931) cantavano tutti del Principe delle Tenebre.

Pochi anni prima un altro chitarrista chiamato Tommy Johnson (omonimo ma non parente di Robert) raccontò al fratello di aver venduto l’anima al diavolo in cambio della capacità di suonare la chitarra e, nel 1925, la cantante Clara Smith scrisse e incise il pezzo “Done Sold My Soul To The Devil”.

Curiosità: la leggenda di Robert ma con il personaggio di Tommy Johnson appaiono nel film dei fratelli Coen“Fratello dove sei?”.

Altri aneddoti raccontano di come il giovane bluesman fosse “innaturalmente” capace di riprodurre nota per nota, qualsiasi melodia ascoltasse: senza difficoltà alcuna, senza prestarvi attenzione, quasi in modo distratto. Quale che sia la verità, Robert Johnson (e su questo le versioni concordano), dopo quel “biennio sabbatico”, ricompare sfoggiando una bravura irraggiungibile.

 Aldilà della “leggenda infernale”, la versione “ufficiale” ci dice che Johnson, nel suo vagare nel Delta di villaggio in villaggio, abbia incontrato un misterioso e anziano bluesman che gli fece da mentore: Ike Zimmerman.

Ike Zimmerman viveva ad Hazlehurst e, al contrario dei suoi compaesani (agricoltori o mezzadri), egli era un operaio, per questo poteva comprarsi chitarre che altri suoi contemporanei non potevano permettersi. Zimmerman viveva, con la moglie Ruth e i loro sette figli (sei femmine e un maschio), in una tipica shotgun house vicino al cimitero del paese.

Come riportato anche dalla figlia di Ike, Loretha Zimmerman, al biografo Bruce Conforth, il padre accolse premurosamente Robert in casa propria ed era solito impartirgli lezioni di chitarra di notte al cimitero. Secondo la figlia la scelta del luogo insolito e dell’ora tarda non aveva significati sinistri, bensì, la scelta del padre fu dettata semplicemente dalla necessità di trovare un luogo silenzioso dove non ci fosse alcuno che potesse disturbarli…e soprattutto nessuno da disturbare. Da lì a poco, il giovane conobbe una donna, Calletta Callie Craft, di dieci anni più grande: si sposarono in segreto nel maggio 1931.

Callie amava e idolatrava Robert. Soddisfaceva ogni sua necessità, esaudiva ogni suo capriccio, inoltre si occupava di tutta la sua amministrazione. Robert poteva dedicarsi interamente alla sua musica. Durante la settimana nei cimiteri con Ike, il sabato sera nei locali ad esibirsi fino all’alba. “RL”, la sigla con cui si presentava, cominciò ad essere conosciuta ed apprezzata. Si trasferiscono nel villaggio di Copiah County, ma la crescente ossessione per la musica di Robert, diventa presto insostenibile per l’amorevole Callie e, così, anche il loro matrimonio finisce. Nel frattempo “la diceria” cresce e la leggenda prende vita…e Robert fa il necessario perché tale leggenda non venga dimenticata.

Un giorno incontra alcuni amici e, con l’aiuto di parecchi shots di whisky, racconta loro una storia che, pressappoco recitava così:

“Una sera molto buia mentre passeggiavo per Clarksdale, mi persi a un “crocicchio” (crossroads). Mentre mi stavo per addormentare, una leggera brezza mi svegliò. Alzai lo sguardo e sopra di me vidi un’ombra enorme con un lungo cappello. Spaventato, incapace di fissare quell’apparizione, rimasi paralizzato! Senza proferire una sola parola l’apparizione si chinò, raccolse la mia chitarra, l’accordò, suonò alcune note divine, o meglio diaboliche, mi restituì lo strumento e poi scomparì nel vento del sud.”

Eric Clapton lo ha sempre “venerato” come una sorta di spirito guida e, fin dai tempi di John Mayall e dei Cream, gli dedica varie cover. Con Ginger Baker e Jack Bruce registra una versione decisamente “violenta” proprio di “Crossroad”: dove Johnson narra del suo incontro col diavolo. Le sue parole:

Per me Robert Johnson è il più importante musicista blues mai vissuto. […] Non ho mai trovato nulla di più profondamente intenso. La sua musica rimane il pianto più straziante che penso si possa riscontrare nella voce umana.”

Ma i testi delle canzoni di Johnson sono considerati estremamente evocativi non solo per Slowhand.

“Robert Johnson. Penso allo stesso modo in cui penso ai poeti romantici britannici, Keats e Shelley, che si sono esauriti presto, che erano dei geni nella creazione di parole poetiche.”

Bill Ferris nel programma “The story with Dick Gordon”.

“Robert Leroy Johnson è il più grande poeta-cantante della solitudine nella storia del blues”.

Il critico musicale italiano Piero Scaruffi.

 La sua prima canzone, “Kind Hearted Woman Blues”, come molte altre sue opere, è in controtendenza alla prevalenza dei brani di Delta Blues dell’epoca, ha una melodia che richiama lo stile del blues di Chicago, di Saint Louis, del Texas, però con un arrangiamento così ricco di variazioni originali da renderla assolutamente unica.
Altro tratto distintivo delle composizioni di Johnson era la sua voce molto acuta, quasi in falsetto, decisamente in contrasto con lo stile tipico del canto blues basso e rauco dell’epoca; questo rendeva i suoi brani diversi anche nella carica emotiva dell’interpretazione se non, spesso, strazianti.

Quanto alla sua voce, è Robert Plant a tracciare un’acuta analisi:

“Il tormento e la desolazione di Johnson sono meravigliosi. Cantare con la sua intensità è la credenziale più importante che un uomo di spettacolo possa avere.”

Eric Clapton descrisse il canto di Johnson come “il più potente pianto che penso possa trovarsi nella voce umana”.

“Quando Johnson ha iniziato a cantare, sembrava un ragazzo che sarebbe potuto balzare dalla testa di Zeus in armatura completa. Ho subito notato le differenze tra lui e chiunque altro avessi mai sentito. Le canzoni non erano le solite canzoni blues. Erano assolutamente fluide. All’inizio passavano veloci, troppo veloci per essere comprese. Saltavano da tutte le parti per gamma e argomento, versi brevi e incisivi che sfociavano in alcune storie panoramiche sull’umanità che esplodevano dalla superficie di questo pezzo di plastica che girava.”

Bob Dylan

“Quando lo ascoltai per la prima volta, nel 1971 – racconta il grande Robert Cray – pensai che venisse da un altro pianeta. Puoi studiare le sue canzoni per tutto il tempo che vuoi, ma non c’è modo di suonare e cantare con quel tipo di emozione. Le persone così brave non le sopporto, ma è una cosa con cui devi convivere.”

Complice la sua prematura scomparsa, le incisioni effettuate da Robert Johnson giunte a noi si contano in sole 29 tracce; per 13 di queste disponiamo anche delle rispettive alternate take (all’epoca scartate in prima battuta e successivamente pubblicate su 78 giri) per un totale di 42 registrazioni note, complessivamente.
Era un tardo pomeriggio di novembre del 1936 quando Robert Johnson arrivò a San Antonio, in Texas. Da lì a poche ore dopo fu picchiato dalla polizia e arrestato per vagabondaggio e la sua chitarra sfasciata contro un muro della cella. Il giorno seguente, H.C. Speirs, negoziante di dischi di Jackson, presentò un malconcio Robert ad Ernie Oertle: famoso scopritore di talenti.

Oertle riuscì ad organizzare alcune sedute di registrazione, col famoso produttore discografico Don Law, nella stanza 414 del Gunter Hotel. In quell’hotel, in una manciata di incisioni, verrà forgiata la storia del blues.

Tra il novembre del 1936 ed il giugno del 1937 vennero incise quelle 29 canzoni che rappresentano l’intera discografia di Robert Johnson.

Nella prima sessione di registrazione fatta nel novembre 1936 da Don Law, Johnson incise “Terraplane Blues”, uno dei suoi blues più famosi. Tornò in Texas il giugno seguente, ma sebbene Law avesse portato la migliore attrezzatura in suo possesso, nulla eguagliò il successo di Terraplane.

Negli ultimi anni, tra tecnici e professionisti del settore, artisti e semplici appassionati, hanno preso piede non pochi dubbi sulle reali tonalità e velocità di esecuzione presenti in quelle preziose incisioni. Secondo alcuni le registrazioni dei pezzi del bluesman potrebbero essere state velocizzate di circa il 20% in fase di stampa.
Ciò significherebbe che la reale voce di Johnson sarebbe molto meno acuta di come la ascoltiamo oggi.

La teoria si basa su un’attenta analisi dello stile strumentale di Johnson: per eseguire quelle registrazioni, il bluesman avrebbe dovuto utilizzare, in diversi brani, un capotasto al quarto tasto, azzardandosi, durante l’esecuzione, in posizioni decisamente difficili e scomode, prendendo in considerazione i modelli di chitarra che si suppone egli suonasse.

In effetti, il consorzio OKeh/Vocalion, che pubblicò originariamente il materiale, era conosciuto per la sua “vocazione” nell’accelerare le sue incisioni, aumentandone il numero di giri al minuto da 78 a 81, il tutto per fare risultare i brani maggiormente moderni e accattivanti. Le registrazioni originali sono andate perdute e non è quindi possibile verificare se all’epoca, effettivamente, ci sia stato un intervento di questo tipo. Ma il fascino oscuro della musica di Robert Johnson resta intatto.

Una scala che porta verso il baratro, ogni canzone è un gradino che ci avvicina inesorabilmente a quell’inferno, più o meno grande, che ognuno di noi cova nei meandri della propria anima. Le sue parole ci parlano di un mondo dove salvezza e redenzione hanno ceduto sotto il peso di peccati e pulsioni, di prepotenza e crudeltà che non siamo più capaci (e forse non lo siamo mai stati) di rimettere. Una denuncia senza pietà della falsa retorica “America patria delle grandi occasioni e delle infinite possibilità per tutti”, dove i sogni irrealizzati dell’individuo diventano una sorta di bandiera a mezz’asta, simbolo del fallimento collettivo dei più. Poveri, disperati, emarginati, diseredati.

E poi l’immagine del demonio, la costante ossessiva nella sua musica, come in “Me And The Devil Blues”:

“Questa mattina presto

Quando hai bussato alla mia porta

Ho detto: “Buon giorno, Satana

Credo sia ora di andare”.

 …e ancora in “Hellhound on my Trail”:

“Devo continuare a correre

Il blues cade come grandine

E il giorno continua a tormentarmi…

C’è un segugio infernale sulle mie tracce.”

Robert Johnson temeva il diavolo, ma è altrettanto vero che con esso intrattenesse “buoni rapporti”.

Forse, la consapevolezza della sua anima perduta e della dannazione eterna lo mettevano in uno stato di incoscienza e irresponsabilità tali da renderlo mortalmente affascinante nella presenza e vibrante nelle sue esibizioni. Esibizioni dove le donne cadevano letteralmente ai suoi piedi.

Nelle sue canzoni (“Stop Breakin’ Down Blues”, “Hellhound On My Trail”, “From Four Till Late”,”Kindhearted Woman Blues”, “Drunked Hearted Man”, solo per citarne alcune) un’apparente “normale” romanticismo è solo la premessa ad istinti repressi, pulsioni selvagge, desideri inconfessabili, dove la donna, fa sì fede alla sua forza rigeneratrice ma, resta solo un mezzo, un oggetto angelico e demoniaco (una moneta…due facce).

Questo, e altro, è Robert Johnson, quindi, inevitabilmente, il blues. E artisti come Jeffrey Lee Pearce, Layne Staley, Brian Jones, Jim Morrison, Ian Curtis, Janis Joplin, Jimi Hendrix, Nick Cave, Simon Bonney, Kurt Cobain e altri, ne sono degni debitori.

Come sappiamo, lo stile chitarristico di Johnson è eccezionalmente complesso e vario. Egli getta un ponte tra gli stili blues dell’epoca: il tipico downhome del Delta tocca gli shuffle texani, contaminati dal country e dal jazz.

Si narra che Johnson, durante le incisioni, per non rivelare i suoi tecnicismi alla chitarra, suonasse girato verso il muro. Questo pare avvenisse anche durante i live.

Pare che Keith Richards, quando ascoltò per la prima volta una canzone di Johnson, grazie a Brian Jones, replicò: “Chi è l’altro tipo che suona con lui?”, non rendendosi conto che Johnson stesse suonando la chitarra da solo. In seguito disse che Johnson da solo suonava come un’intera orchestra.

Dettagli che definiscono ancora di più i contorni del mito in vita, ma un destino macabro quanto i suoi blues caratterizzerà la sua tragica fine.

Ad oggi non si hanno certezze sulla morte del troppo giovane bluesman: il certificato di morte, registrato all’Ufficio di Stato Civile di Jackson il 18 agosto, è a dir poco generico per non dire incompleto, e oltre a non far luce sulle cause del decesso, dal suo contenuto si evince che la ragione della sua dipartita sia da attribuirsi anche al fatto che nessun medico, inspiegabilmente, gli abbia dato assistenza.

Le testimonianze di Sonny Boy Williamson II e David Honeyboy Edwards confermano che, la notte del 13 agosto del 1938, Robert Johnson si stava esibendo con loro al Three Forks, un locale poco distante da Greenwood. Da alcune settimane i tre suonavano lì ogni sabato sera, ma era apparso subito evidente come Johnson avesse una storia con la moglie del gestore del locale, il quale, consapevole del fatto, conti alla mano, decise comunque di continuare ad ingaggiarlo. Sonny Boy riferisce che durante quella sera, complici l’alcol e una passione irrefrenabile, gli atteggiamenti dei due da imbarazzanti diventarono, non solo agli occhi del marito, intollerabili. Durante una pausa, venne passata a Robert una mezza bottiglia di whisky senza tappo, Sonny Boy gliela fece cadere di mano, avvertendolo che, quella notte, non sarebbe stato prudente bere da una bottiglia aperta. Johnson si infuriò e bevve con rabbia da un’altra bottiglia, ugualmente passatagli già stappata. Pochi istanti dopo Johnson cominciò a vacillare e, da lì a poco, non era più in condizione di suonare. Lasciò il locale e abbandonò lì la chitarra andandosene via in stato confusionale. Lo accompagnò a casa un amico. Poche ore dopo iniziò a delirare, mostrando i primi evidenti segni di avvelenamento.

Greil Marcus, a proposito della morte, scrisse:

“Morì nel mistero: qualcuno ricorda che fu pugnalato, altri che fu avvelenato; che morì in ginocchio, sulle sue mani, abbaiando come un cane; che la sua morte aveva qualcosa a che fare con la magia nera.”

Si dice avesse utilizzato le sue ultime forze per scrivere una sorta di testamento, e una frase in particolare:

“So che il mio Redentore vive e mi richiamerà dalla tomba”.

Oggi sappiamo che il musicista morì solo nella sua camera dopo due giorni di agonia, soffocato dal vomito e dall’emorragia causata dall’avvelenamento.

Nemmeno la vera tomba di Robert Johnson è stata ancora ufficialmente identificata. Nei dintorni di Greenwood ci sono infatti ben tre pietre tombali con il nome dell’artista inciso sopra.

Nel cimitero della Chiesa Missionaria Battista di Mount Zion a Morgan City, vicino Greenwood, nel 1990, su una lapide preesistente, è stato posto un grande obelisco con incisi tutti i titoli dei brani di Robert Johnson. L’opera è stata pagata dalla Columbia Records e da privati del Mont Zion Memorial Fund. Dai più è considerato il sito più attendibile per la sua tomba.

“Resting in the Blues”, invece, è la frase scritta su una piccola lapide intestata a Robert Johnson nel cimitero di Payne Chapel vicino a Quito.

Infine, la Sony Music ha restaurato la lapide sul terzo sito, sotto un enorme albero nel cimitero della Little Zion Church lungo la Money Road a nord di Greenwood.

Le appassionate cover di Eric Clapton, gli irriverenti swing dei Blues Brothers, la slide di Ry Cooder, gli scatenati riff di Keith Richards, gli intramontabili blues di Robert Cray e tutte le altre magnifiche “creature” di altrettanti grandi artisti devono la loro ragion d’essere a Robert Johnson.

Non so chi di loro abbia ancora dentro di se almeno una scintilla di quel “fottuto” demone che rese eterno quel piccolo uomo che camminò su questa terra per così poco tempo, come non ho idea, alla fine di questa storia, a che punto, e se, il male abbia avuto veramente la meglio sul bene.

L’unica cosa che mi sento di dire a voce ferma è che:

La musica del bluesman Robert Leroy Johnson rappresenta, senza ombra di dubbio, il sublime riscatto del peccato sulla virtù.

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